Ti chiami Momo e non sai molte cose, come ad esempio, se hai un padre, mentre la madre ce l’hai di sicuro, anche se non l’hai mai conosciuta e, per di più, credi di essere piccolo e non lo sei affatto. Chi potrebbe vivere così “incasinato”? Ecco: casino (nel senso di casa di tolleranza, da noi abolita dalla Legge Merlin del 1958) rende bene l’atmosfera di un appartamento parigino sui generis, di proprietà di un’anziana prostituta francese, Madame Rosà, ebrea e deportata ad Auschwitz, dopo essere stata reclusa nel famigerato Velodromo, e da lì instradata in Germania su treni piombati. Ed è proprio lei, sopravvissuta al Male per eccellenza, a creare in casa sua una sorta di giardino d’infanzia clandestino per “figli di puttana”. Il tutto, nel senso letterale del termine, in quanto le giovani prostitute madri, non potendo portare i loro figli “al lavoro”, li depositavano nella casa di Rosà, previo versamento di un’adeguata retta di mantenimento. Solo che, per cattiva volontà, o perché vittime di femminicidio, qualcuna delle sventurate non tornava a riprendersi, né a visitare mai più i propri figli, lasciati in deposito temporaneo. Questa bellissima storia, tratta dall’omonimo romanzo di Romain Gary, La vita davanti a sé (Edizioni italiane di Rizzoli 1976 e, più di recente, Neri Pozza nel 2009), Premio Goncourt del 1975, è magistralmente raccontata da Silvio Orlando nel suo bellissimo spettacolo, misto di prosa e musica, che va in scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman fino al 21 dicembre. Il protagonista Momo è il narratore di sé stesso, che sogna di poter riavvolgere il nastro invisibile della vita, come accade con le pellicole cinematografiche che, avvolte al contrario, resuscitano i morti e ringiovaniscono i visi e le persone. Lui, essenzialmente, è un cacciatore d’amore, perché come tutti i bimbi abbandonati ha in mente un solo desiderio: il bisogno di rifugiarsi in un seno materno purchessia, che dia conforto e consolazione.
Madame Rosà, ormai con troppi anni e un quintale di peso in più indosso, il miracolo materno non può più farlo, ma ciò che le rimane, ovvero le sue grandi ali protettrici, metà aquila e metà chioccia, le mette volentieri a disposizione per il mestiere che conosce meglio di tutti: quello della protezione, stavolta a beneficio di quei piccoli che non sono stati più ritirati dalle loro sciagurate madri naturali. Un monologante e magistrale Silvio Orlando, come tutti i grandi attori d’esperienza, compensa la sua mobilità ridotta e non più giovane con l’abbinamento straordinario di mimica e voce, che non mancano mai nemmeno una volta all’appuntamento con i momenti topici di quel dramma in farsa. Lo spettacolo si svolge cadenzato da inserti di musica Klezmer, a opera di un quartetto di musicanti, tra cui emerge una bella vocalità maschile, profonda e affascinante, venuta dall’Africa con la sua kora (una sorta di arpaliuto con una cassa armonica di zucca), che dimostra tutto il suo fascino e la sua forza poetica in un finale musicale a sorpresa. Orlando costruisce in scena e in un atto unico l’infanzia di Momò di cui si fa magistralmente interprete, ricordando come quel bambino abbandonato e disperato aveva scelto di defecare sui pavimenti di quella sua casa-ostello, affinché spazientita ed esasperata Madame Rosà, imprecando contro Auschwitz, lo restituisse definitivamente alla sua sciagurata madre naturale. E poiché l’aspetto circense nella vita di Momo ha la sua bella importanza, come il sesto piano (senza ascensore!) dove era sistemato l’appartamento di Rosà, lo scenario si presenta come una torre elicoidale di cartapesta, in cui lunghi filari di luce scendono a campana dalla cuspide verso terra, come a ricordare il tendone variopinto del circo stesso.

Momo, che non lascerà mai la casa di Rosà nemmeno quando se ne presenterà l’occasione, sceglie di vegliare come un figlio premuroso quell’invecchiare e disfarsi di un corpo una volta bello, ma talmente appesantito dall’età e dai chili in eccesso, da diventare una visione orripilante nella sua oscena nudità. Così, negli anni che vanno dall’infanzia all’adolescenza, Momo diventa l’assistente e il badante di una Madame sempre più immobilizzata e labile di senno. E lo fa tenendo sempre fede alla promessa fatta all’anziana maîtresse di non permettere a nessuno, tantomeno al suo medico di fiducia, un umanissimo dottor Katz, ebreo anche lui, di disporre il suo ricovero in ospedale. E Momo ottempera, malgrado il progressivo peggioramento delle condizioni di salute di Rosà, e una demenza senile in stato avanzato, con assenze sempre più lunghe e pronunciate di fuga dalla realtà. Ad assistere a loro volta Madame e Momò si prestano altre figure del condominio verticale: un trans che si attiva meglio e più di una madre, visto il suo grande desiderio e l’impossibilità pratica di diventarlo; una famiglia di facchini, per il trasporto dell’armadio in carne e ossa di Madame a pianterreno e viceversa; e persino alcuni sciamani africani danzatori, chiamati d’urgenza accanto al suo capezzale per risvegliarne lo spirito assente. Poi, però, avviene il miracolo con una temporanea resurrezione dell’anziana nel pieno delle facoltà, quando c’è da difendere con le unghie e con i denti, ma soprattutto con una clamorosa bugia, la permanenza del suo adorato Momò in quella casa.
Al momento topico, infatti, scatta la trappola razionalissima di Madame, quando si presenta alla porta per reclamare suo figlio il padre naturale di Momò, Kadir Yoûssef, prosseneta ma musulmano fervente, recluso per un decennio in un manicomio criminale per aver ucciso la madre di Momò, prostituta ricercatissima dai suoi clienti e della quale si era invaghito il suo stesso protettore mettendola incinta. E che cosa c’è di peggio nel far credere a un ossessivo fedele di Maometto che suo figlio, purtroppo, per banale scambio di persona, è stato educato come un ebreo? Il cuore malandato di Yoûssef cede allora di schianto a quella rivelazione e, per sviare eccessive curiosità, Momo si fa cinicamente aiutare dagli omertosi facchini del piano sottostante per il trasporto clandestino a pianterreno della spoglia mortale del suo vero padre. Poi, però, c’è l’uovo. Che non è quello di Colombo ma l’illusione di un ragazzino che vuole una famiglia normale, ma che ottiene solo quella cosa fabbricata dal culo di gallina e una carezza, in cambio dell’esibizione della sua infinita tristezza di orfano. Poi, subito dopo c’è la speranza di un’adozione da parte di Nadine, doppiatrice cinematografica con un marito medico e due figli biondissimi e bellissimi, che affascina Momò con quei suoi filmati prodigiosi dove le immagini si avvolgono a ritroso, sognando così di poter accarezzare mille e mille volte quel volto di madre che ti guarda con amore appena nato, mentre nella vita reale una cosa simile non può accadere mai.
E al culmine della storia, per Momò non c’è che da accompagnare Madame al suo fine vita, dopo essersi nascosto assieme a lei nello scantinato, dove la donna aveva da tempo attrezzato il suo “angolo ebreo” arredato con una monumentale poltrona, per poi una volta morta vegliarla da solo per giorni e giorni, coricandosi accanto a Rosà e cospargendola di profumo. Al termine dello spettacolo, Silvio Orlando ha offerto come regalo natalizio, con la promessa di un sorriso, un siparietto musicale in cui lui stesso si è esibito al flauto traverso assieme al suo quartetto, sfoggiando così il suo amore di gioventù: “Amavo la musica che però non amava me!”. Spettacolo imperdibile!
(*) La prima foto è di Salvatore Pastore
(**) La seconda foto è di Gianni Biccari
Aggiornato il 16 dicembre 2025 alle ore 17:17
