Quand’è che una vita vale la pena di essere vissuta? In molti modi o in nessun modo: dipende da quanto si ama o si è amati. Dipende, soprattutto, dal grado di curiosità che si ha di fronte ai misteri dell’esistenza stessa, in cui la gioia del vivere gioca la sua partita malgrado tutto, mentre la perde, all’opposto, quando ci si rassegna in silenzio all’inevitabile declino del piacere nel quotidiano. Ebbene, il bel film del regista Koya Kamura, Un inverno in Corea, in uscita nelle sale italiane l’11 dicembre, racconta un po’ tutto questo, giocando le trame del destino tra passato e presente e le sue proiezioni oniriche sul futuro. Al centro, l’impatto della routine di chi è rimasto senza un compagno o una compagna di vita, come Mister Park (Ryu Tae-ho), il proprietario del piccolo hotel di provincia e datore di lavoro della giovane protagonista Sooha (una bravissima Bella Kim), e la madre di lei (Park Mi-hyeon), che gestisce un piccolo banco di pesce al mercato ittico locale di Sokcho, cucinando per la figlia e il suo datore di lavoro un pesce pericoloso, ma delizioso, una volta privato della sua ghiandola velenifera. E sono proprio i due anziani a instaurare un’atmosfera di pacificazione con la vita che le giovani generazioni ancora non possiedono, perché i più vecchi acquisiscono nel tempo la capacità di intuire il non detto nel silenzio delle storie che li attraversano. Sono loro, infatti, avendo sufficientemente vissuto, a saper interpretare volti, sguardi e parole a metà, per offrire ogni volta un suggerimento velato, una parola appena sfumata di conforto quando necessario. Le scene sono immerse nell’assoluta discrezione dell’Oriente, con un particolare tocco di pittura nei riquadri che costruiscono un’intimità raccolta, che sia la piccola dépendance dell’albergo, o la piscina riscaldata femminile di un bagno pubblico. Un po’ ovunque, il racconto coglie il desiderio di sposare il lontano con il vicino, le atmosfere solo sognate di Parigi con l’austero, gelido paesaggio di un inverno sudcoreano, così come vissuto in un piccolo centro periferico (collocato in riva a mare) di quel Paese asiatico.
Bello e delicato, in tal senso, è lo scorrere della vita nel rapporto madre e figlia, distanziato a tratti dalle vicende sentimentali e della convivenza tra Sooha e il suo giovane fidanzato, in cui lui è costantemente a caccia di un futuro migliore e di un’occasione di lavoro nella grande città che, come un gorgo sotterraneo, trascina nei suoi canali tombati chi non ha più radici solide da nutrire, dopo aver abbandonato quel terreno gelido che lo ha visto nascere. Così, anche un riconosciuto amore giovanile non basta a cementare due destini che aspirano a raggiungere destinazioni opposte: per lui, una grande giostra cittadina che dissolve lo sconforto delle proprie origini e l’altra opposta per lei, che calpesta con amore e desiderio la neve gelata dei suoi affetti caldi. Un’allegoria di tutto ciò la restituisce la brillante immagine di Sooha, francofona per passione, che utilizza come tela trasparente il velo di vapore dello specchio della doccia per tracciare con il dito un quadro astratto, ispirata da qualcosa che ha spiato di nascosto, arrampicandosi pericolosamente sul tavolinetto della sua stanza. Perché, la ragazza, sua madre e la zia condividono (ma non sino in fondo) il segreto di una nascita mista tra un francese, tornato in patria prima della sua nascita, e una donna coreana, rimasta ragazza madre con l’obbligo di cavarsela e crescere da sola Sooha, la figlia tanto amata.
Così, la materializzazione del padre-fantasma nell’immaginario della ragazza coincide con il momento in cui un famoso autore di grafic novel (romanzo a fumetti), Yan Kerrand (Roschdy Zem), arriva improvvisamente a Sokcho chiedendo di affittare una stanza nel piccolo albergo di Mr. Park per un periodo di soggiorno imprecisato. Ovviamente, l’età del misterioso personaggio, la sua provenienza e il suo fare misterioso, rappresentano uno stimolo irresistibile per Sooha (che ne ha in carico diretto la gestione, grazie alla sua padronanza della lingua francese), per proiettare sull’occasionale artista straniero il suo bisogno di conoscere un padre svanito nel nulla. Per una serie di circostanze accidentali, Sooha è costretta a trasferirsi nella stanza accanto a quella del romanziere-illustratore, contaminandosi così di nascosto, come fosse una carta assorbente, degli umori dell’artista, tenebroso e impenetrabile, di cui subisce il fascino filiale. Ed è lui che, indovinando la domanda inespressa della giovane donna, arriva a rigettarla bruscamente, quasi con brutalità, avendo una storia personale completamente diversa che lo attende inesorabilmente al suo ritorno in patria. La sua lotta affannata per riafferrare quell’ispirazione matrigna che si nega all’artista, passa come acqua versata da una stanza adiacente all’altra, inserendosi nelle fessure di una finestrella lacerata e intercomunicante, coperta solo da un pannello di carta. Allegoria vivissima quest’ultima, con cui si collegano attraverso un lungo ponte di sabbia sentimenti controversi, che si influenzano e interagiscono a vicenda, senza che nessuno dei due protagonisti, l’uomo maturo e la giovane in fiore, sia in grado di farsene una ragione. Poi, la vita fa sempre un po’ da sola, riprendendo il suo corso tra fiducia, sogno e verità che possono anche far male.
Voto: 8/10
Aggiornato il 05 dicembre 2025 alle ore 13:49
