“Il maestro”: La vita non è un “Let”

È possibile ripetere una battuta di servizio durante una partita di tennis? Sì: quando la pallina lanciata dal battitore sfiora il nastro della rete, cadendo correttamente in campo avverso. Ma la vita che scorre in base al tempo che passa non ha mai il suo “let”, perché nulla è più come prima e i cuori e le teste delle persone incontrano i loro bei mutamenti. Questo e molto altro, tra il simbolico e il reale, lo si ritrova nell’interessante, ultima fatica del regista Andrea Di Stefano, che propone al pubblico un suo film emblematico, dal titolo Il maestro (nelle sale dal 13 novembre), con Pierfrancesco Favino, il maestro di tennis Raoul Gatti, inguaribile sciupafemmine, arrivato agli Ottavi di finale in un torneo internazionale e finito in una casa di cura per malattie nervose, a seguito di una vita piuttosto movimentata. Suo allievo decisamente “pippa” (come si usa definire in dialetto romanesco le persone dotate di scarso talento) è il tredicenne Tiziano Menichelli, nella parte di Felice Milella, per il quale stravede il padre Pietro (Giovanni Ludeno). Quest’ultimo un semplice ingegnere delle telecomunicazioni, con una moglie casalinga, ossessionato dal tennis, per cui sogna a occhi aperti di crescere un figlio campione, obbligandolo nelle ore libere della loro giornata ad allenamenti estenuanti, gestiti con cadenze rigorose e ossessive. Un training da seguire sulla scorta di un cahier di istruzioni, compilate a mano dal padre ingegnere alla stregua di un diagramma di flusso, come si farebbe nella scrittura di un software per un “automata”, macchina o computer, anziché per un soggetto in carne e ossa, dotato di passioni ed emozioni proprie. E qui, emerge in tutta evidenza il primo degli enunciati della regia e della sceneggiatura, sintetizzabile nel confronto spietato tra “processo” (sequenza codificata di istruzioni) e “istinto”, ovvero l’umano che è in noi.

Il tutto incentrato sulle due figure caratterialmente opposte del maestro di tennis, da un lato, e del padre dello sportivo in erba, dall’altro, in cui alle proiezioni dell’uno (dimensionate in base al superego paterno, e ben lontane dal principio di realtà), si contrappongono i fallimenti esistenziali e concreti dell’altro. Questi ultimi fin troppo terreni, solidamente carnali e pratici, per essere minimamente a portata di insegnamento per l’allievo, impregnato delle convinzioni astratte associate al mandato paterno del successo a ogni costo, che fa di un perdente nato un frustrato a vita. E a nulla serve il commento infuriato (“sei un pippa!”) della sorella più grande, che si è vista sottrarre assieme alla madre soldi e vacanze dal padre-padrone, perché a suo insindacabile giudizio tutta la famiglia doveva fare sacrifici, pur di sostenere Felice nelle sue trasferte fuori casa, per partecipare ai tornei validi per le classifiche nazionali, accompagnato e allenato dal maestro Gatti. Ora, che cosa può capitare quando si gareggia in velocità su un percorso a ostacoli, e non si hanno né gambe né occhio addestrati per trovare le giuste cadenze tra una barriera e l’altra? Risposta ovvia: alla prova concreta dei fatti, si verificherà un’inevitabile sequenza di inciampi, con cadute rovinose contestuali di allievo e maestro, ciascuno colto in fallo nelle proprie responsabilità. Così cade Felice, che obbliga il suo maestro a rispettare le codifiche di processo, meticolosamente stilate da suo padre nei quaderni di allenamento compilati a mano. Mentre da fuori Gatti inciampa nel suo carattere, portato a trascurare tutti i suggerimenti di Pietro, allenatore dilettante, per affidarsi al proprio istinto e all’esperienza, ricorrendo solo ai segnali standard, attraverso i quali gli allenatori fuori campo, seduti sugli spalti, comunicano ai loro allievi le mosse da fare durante le partite impegnative degli scontri diretti.

Allora, ci sarà cesura o drammatica rottura tra allievo e maestro? La seconda, se si dà per scontato il peso del risultato matematico, esemplificato da una sequenza di “sei a qualcosa” che decreta una lunga serie di sconfitte del giovane (in)Felice sui campi in terra battuta. La prima, invece, se il gioco della vita è come la spuma dell’onda oceanica che ti scaglia sulla parte sabbiosa, facendoti atterrare di schiena a tradimento, dove il tuo sguardo allarmato e spaesato guarda allo squarcio dell’azzurro violento del cielo, che si libera dalle sue nubi nere. Così Felice imparerà a vivere interagendo con il vissuto tormentato e drammatico di un uomo tutto sommato onesto, consumatore all’eccesso di vita, le cui esagerate code accompagneranno le vicende della coppia-allievo maestro e la sua catena di fallimenti, dell’uno come dell’altro. Ma sarà proprio la riscoperta del passato sepolto di Raoul Gatti, riaffiorato proprio grazie alla voglia di riscatto che l’allievo-figlio ispira al maestro-padre, a cambiare i destini reciproci, fino all’epilogo serenamente drammatico per l’atleta maturo, e a quello incruento dell’uccisione simbolica del padre naturale (condensata in un profetico “occhiolino”, con cui si conclude l’inquadratura finale) da parte di Felice.

Per il resto, la lunga cavalcata (più simile a una latitanza a due, per certi versi) dell’atipica coppia adulto-adolescente è una lunga scorribanda tra stanze d’albergo, fughe precipitose, comportamenti da hooligan a seguito di crisi di nervi, pulsioni suicide a causa di un passato d’amore vero non corrisposto, che genera in Gatti tremendi sensi di colpa, che solo l’affetto spontaneo e disinteressato di Felice riuscirà in parte a guarire. E poiché fare un film equivale a una partita disordinata a scacchi, dove la “pippa” può casualmente vincere il più esperto maestro, ha perfettamente ragione Andrea Di Stefano a ricordarci come il set sia una sorta di deposito bagagli, in cui attori, regia e addetti ai lavori rappresentano altrettanti artigiani, ciascuno con la propria cassetta degli attrezzi, e le scene finali sono quelle selezionate al montaggio, dove i copioni subiscono inevitabili forzature, mescolandosi alle trovate e ai gesti spontanei, fuori dal controllo di processo della regia. Perché, poi, questa è la vita!

Voto: 8/10

Aggiornato il 10 novembre 2025 alle ore 10:19