 
     Stefano Sollima ha dedicato una miniserie ai delitti del Mostro di Firenze. Il progetto televisivo, prodotto da prodotta da The Apartment e AlterEgo, presentato in anteprima all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è visibile in streaming su Netflix dal 22 ottobre. Purtroppo, nonostante le attese, Il mostro delude su tutta la linea. Sotto il profilo narrativo, il regista romano, coadiuvato in fase di scrittura da Leonardo Fasoli, imbastisce un racconto confuso, contrappuntato da continui andirivieni temporali. Il caso del Mostro di Firenze, che ha appassionato e terrorizzato per anni un’intera nazione, ancora oggi costituisce uno dei misteri irrisolti della storia contemporanea. Si tratta di otto duplici efferati omicidi, per sedici vittime, compiuti in aree isolate della campagna toscana, lungo un intervallo di tempo di 17 anni, dal famigerato “serial killer delle coppiette”. La narrazione, composta da quattro episodi da 60 minuti ciascuno, prende le mosse dal duplice omicidio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, avvenuto il 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli, fuori Firenze. I due giovani si appartano in macchina, un uomo non meglio identificato li spia, si avvicina e li uccide crivellandoli di colpi. Le ricerche portano a un collegamento con un delitto passionale compiuto con le medesime modalità nel 1968. L’arma usata è la stessa: una Beretta calibro 22. Per quel crimine è stato giudicato colpevole Stefano Mele (un remissivo Stefano Bullitta), un muratore di origini sarde. Le vittime sono la moglie Barbara (una determinata Francesca Olia) e l’amante, Antonio Lo Bianco (un evanescente Claudio Vasile). Per queste ragioni, la procuratrice (un’eterea Liliana Bottone), insieme alla sua squadra, dà il via alle indagini che intrecciano il presente von il passato. Emergono i nomi di Francesco Vinci (Giacomo Fadda) e poi persino del fratello Salvatore (Valentino Mannias). Ma tra reticenze, segreti e inevitabili bugie, riuscire a trovare il colpevole appare un’impresa ardua.

Stefano Sollima, celebrato regista di genere, sia al cinema che in tivù, opta per una ricostruzione dei fatti volutamente perturbante. Un racconto che inquieta, atterrisce e disturba. La scelta narrativa è precisa e consapevole. Il primo approdo narrativo dell’origine del male riguarda la cosiddetta “pista sarda”. Emerge un ritratto fosco e primordiale di un gruppo di famiglia in un interno che dall’isola si trasferisce in Toscana, reiterando un inaccettabile retaggio di inaudita violenza patriarcale. Il copione firmato a quattro mani promuove un’indagine sul corpo indifeso della donna (santa e peccatrice) usato come oggetto da possedere, vilipendere e martoriare. La narrazione multilineare, segno di sapienza scrittoria, in realtà depista e confonde lo spettatore. Il racconto, in un continuo avanti e indietro tra gli anni Ottanta e Sessanta, si concentra sulla triste parabola esistenziale di Barbara Locci, una donna desiderata, amata e costantemente umiliata da un contesto familiare primitivo e brutale. Il mostro, mettendo in scena la classe sottoproletaria della provincia italiana, non racconta niente di sorprendente, denunciando una povertà di idee disarmante. Il ritmo narrativo, dopo un inizio promettente, diventa ripetitivo e ossessivamente didascalico. Stefano Sollima, artefice in passato di ritratti autentici ed efficaci innervati in racconti convincenti, finisce col disegnare dei personaggi bidimensionali che rispondono a logiche schematiche e inverosimili. Persino i dialoghi, che in altre prove hanno rappresentato il punto di forza, quasi il marchio di fabbrica del regista, nella miniserie sui fatti di Firenze suonano insinceri. Il racconto criminale viene messo in secondo piano, preferendo una dimensione socio-culturale che risulta, comunque, artificiosa. Purtroppo, si tratta di un’occasione persa. Un vero peccato. Perché il doloroso materiale narrativo era indubbiamente meritevole di un’analisi profonda e appassionata.
Aggiornato il 31 ottobre 2025 alle ore 17:49

 
		 