Jafar Panahi, omaggiato con un premio alla carriera, ha tenuto una lezione di cinema alla Festa di Roma. Il regista, sceneggiatore e produttore iraniano, noto per il suo cinema sociale osteggiato dal regime di Teheran, ha ricevuto, insieme a moglie e figlia, Tahere Saeedi e Solmaz Panahi, il premio dalle mani da Giuseppe Tornatore. “Sono molto felice di essere in Italia – ha detto – perché il neorealismo mi ha molto influenzato. Ladri di biciclette di Vittorio De Sica mi ha totalmente cambiato. Ricevere poi questo premio dalle mani di chi ha insegnato l’amore per quest’arte con Nuovo Cinema Paradiso è ancora più bello. Questo riconoscimento, comunque, lo voglio donare a mia moglie che compie gli anni”. Il cineasta iraniano, che ha presentato al festival Un semplice incidente (Yak taṣādof-e sāde), Palma d’oro a Cannes e in corsa per la Francia all’Oscar (in sala dal 6 novembre con Lucky Red), ha tenuto una masterclass aperta al pubblico dell’Auditorium. Come ha detto il regista, nel suo futuro figura una sceneggiatura pronta da molti anni che ha cercato di realizzare senza mai averne il permesso. Il desiderio è quello di trattare il tema della guerra con lo sguardo umano. “Come ho fatto con Un semplice incidente parlando di vendetta. Mi sembra il tempo giusto di fare una cosa del genere con i venti di guerra che ci sono in giro”.

Panahi ha affermato che “l’obiettivo di un regista sia quello di far vedere i suoi film al maggior numero possibile di spettatori e quindi ricevere un premio significa anche questo: è un onore ma è anche funzionale al fatto che lo veda più gente possibile. In Iran se non fai un film di propaganda governativa non ti fanno lavorare. È questo il vero problema. Allora, ti puoi rassegnare o trovare una soluzione”. Secondo Panahi, “il movimento Donna, Vita, Libertà sta cambiando le cose. Un esempio: nel mio film si vede a un certo punto una donna senza velo. In altri tempi sarebbe stato una finzione, oggi invece la finzione sarebbe non metterne una. La gente si sente molto più vicina di prima, ma il regime vuole creare tra loro distanza. Il mio popolo sta cercando di risolvere i suoi problemi quotidiani, ma non posso dire che io mi sia sacrificato di più perché ho conosciuto il carcere. Lì ho visto che tanta gente stava peggio di me. Per fare un esempio c’è chi faceva lo sciopero della fame per venti giorni e nessuno veniva a sapere nulla, se invece ero io a farlo per due giorni di questo mio sacrificio era a conoscenza tutto il mondo”. Oggi Panahi non è più soggetto alle restrizioni di un tempo, ma racconta come sia ancora difficile svolgere la sua attività in Iran. “Negli anni di interdizione ho girato quei cinque film mentre ero in uno stato di shock e continuamente pensavo: come posso fare per realizzare i miei film? Mi mettevo sia dietro sia davanti alla telecamera: facevo anche l’attore in un certo senso. Oggi sono tornato solo dietro la telecamera, al mio vero posto e sto finalmente facendo il mio lavoro da regista”.
Jafar Panahi ha ripercorso gli inizi della sua carriera, ricordando l’incontro fondamentale con Abbas Kiarostami, il maestro riconosciuto del cinema iraniano. Attraverso la visione dei frammenti dei suoi film, Panahi ha spiegato le ragioni dietro la scelta dei bambini come protagonisti dei suoi primi due film, Il palloncino bianco (Bādkonak-e sefid) e Lo specchio (Āyne). “A quei tempi la censura era molto forte ed era difficile girare film per adulti senza avere problemi con la censura. Era più semplice per noi registi far accettare film che trattano tematiche per i bambini, ma in realtà parlavamo di cose da adulti. Dal terzo film ho deciso di parlare direttamente degli adulti”. Panahi si definisce “un regista di cinema sociale. Quando scegli di fare questo tipo di cinema, sei costretto a essere reale e devi essere credibile”. Per queste ragioni, preferisce dirigere gli attori non professionisti in ambientazioni naturali. “Quando stavo girando Il palloncino bianco avevo bisogno di un venditore di pesce e sono andato fino al nord dell’Iran per trovarne uno. Poi avevo bisogno di un sarto e ne ho trovato uno che da 40 anni usava ago e filo, così nel momento in cui prendeva in mano l’ago stava mettendo in scena la sua professione e non si distraeva pensando alla recitazione”. Il regista fornisce un’unica raccomandazione agli attori non professionisti. “Semplice: gli dico di non recitare”.
Aggiornato il 24 ottobre 2025 alle ore 18:24
