“A House of Dynamite”: la detonazione prima dell’esplosione

Dopo un’assenza di otto anni, impreziosita dalla vittoria di un Oscar, Kathryn Bigelow, torna dietro la macchina da presa con A House of Dynamite e, chi si aspettava un ritorno all’azione pura di film come Point Break o alla tensione bellica di The Hurt Locker, potrebbe rimanere spiazzato come è successo a me. Il film presentato in concorso all’82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ora nelle sale romane grazie alla rassegna I grandi festival – Da Venezia a Roma e nel Lazio, evento che da trent’anni offre al pubblico e agli addetti ai lavori l’occasione di scoprire in anteprima assoluta gran parte dei film presentati all’ultima Biennale cinema, come già detto, non è un film d’azione; è un thriller cerebrale, quasi concettuale, dove la vera esplosione è quella psicologica e politica. Le armi e la minaccia nucleare sono quasi una metafora, un potente MacGuffin narrativo che serve alla regista per parlare della permacrisi in cui vive la nostra società. La trama inganna con un pretesto da thriller classico: un missile nucleare in rotta di collisione con gli Stati Uniti. Ma attenzione, è un’esca.

L’obiettivo della Bigelow rimbalza subito dalla minaccia esterna al collasso interno. Con un montaggio teso e mirabile, la sua telecamera si barrica nella Casa Bianca e da lì palleggia tra i diversi centri di potere: dalla Situation Room ai vertici militari, dalla Cia agli analisti di intelligence. In questo gioco di specchi, il missile non è più l’arma, ma il catalizzatore che scoperchia il vaso di Pandora delle nostre più umane fragilità. Magistrale è il modo in cui la regista smonta, sottilmente, l’illusione dell’infodemia. Il cittadino del nostro mondo crede di dominare la realtà perché confonde il torrente di dati da cui è sommerso con la conoscenza. La critica invisibile della Bigelow sta tutta qui: nonostante la nostra presunzione tecnologica, la comprensione delle forze che governano la vita e la morte è rimasta primitiva. Così, l’evento definitivo arriverà inatteso, a dimostrare che siamo sempre gli stessi: bambini ignari fino alla fine, solo con giocattoli più sofisticati.

A incarnare il nucleo filosofico del film è la frase pronunciata dal presidente, un superbo Idris Elba: “Abbiamo costruito una casa con le mura di dinamite, l’abbiamo riempita con tutto ciò che amiamo e poi abbiamo dato un fiammifero a ciascuno dei nostri vicini, sperando che a nessuno venisse mai freddo”. Questa citazione trascende il contesto nucleare. È un’allegoria della nostra stessa civiltà: un sistema interconnesso e tecnologicamente avanzato, ma fondato su equilibri talmente precari da poter implodere in qualsiasi momento. La dinamite non è solo l’atomica, ma anche la finanza globale, la crisi climatica, la polarizzazione politica: sistemi che abbiamo creato e che ora minacciano di travolgerci.

Il cast, che include Rebecca Ferguson, Jared Harris e Greta Lee, si muove in un ambiente fatto di dialoghi serrati e sguardi carichi di tensione, dove la vera battaglia non è contro un nemico esterno, ma contro il tempo, il dubbio e la fallibilità umana. L’assenza quasi totale d’azione fisica serve a sottolineare che il vero dramma è interiore, concettuale. A House of Dynamite è un’opera potente e stratificata che usa il genere per trascenderlo. È la diagnosi spietata di un’epoca che vive sull’orlo del baratro, non per una singola minaccia, ma per la fragilità stessa del “castello di carte” che ha costruito. Un ritorno autoriale di grandissimo spessore, che conferma la Bigelow come una delle cineaste più necessarie del nostro tempo.

Aggiornato il 22 settembre 2025 alle ore 12:56