
A proposito di Università addio. La crisi del sapere umanistico in Italia
“Qualsiasi lavoro scientifico presuppone quantomeno la validità delle regole della logica e del metodo, che sono fondamenti generali del nostro orientarci nel mondo. Inoltre si presuppone che ciò che il lavoro scientifico produce sia importante, nel senso di “degno di essere conosciuto”. Ed è chiaro che qui hanno origine tutti i nostri problemi, perché questo presupposto non è a sua volta ulteriormente dimostrabile con gli strumenti della scienza. Le scienze naturali, come la fisica, la chimica o l’astronomia, presuppongono come una cosa ovvia che valga la pena di conoscere le leggi supreme del divenire cosmico. Pure questo è un presupposto che non può essere affatto dimostrato. E a maggior ragione non può essere dimostrato se il mondo che esse descrivono sia degno di esistere, se abbia un “senso”, e se abbia senso esistere in esso. Di questo le scienze naturali non si occupano. Infine, consideriamo ancora le scienze storiche. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni politici, artistici, letterari e sociali della nostra civiltà nel contesto in cui essi sono sorti. Ma non rispondono direttamente alla domanda se quei fenomeni fossero o siano tutt’ora degni di esistere, né alla domanda se valga la pena di conoscerli. Al contrario, esse presuppongono che sia interessante partecipare in questo modo alla comunità degli “uomini civili”. Ma che lo sia veramente, esse non sono in grado di dimostrarlo “scientificamente” a nessuno. Né il fatto che lo presuppongano può dimostrare in qualche modo che sia evidente. Infatti non lo è affatto”.
Così scriveva Max Weber nel 1919 nel suo saggio Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione), saggio che riproduceva, revisionato, il testo della conferenza tenuta dal pensatore tedesco il 7 novembre 1917 a Monaco, su invito della sezione bavarese della Lega degli studenti liberi. A questo passo ho pensato durante la lettura di Università addio. La crisi del sapere umanistico in Italia, miscellanea curata da Giovanni Belardelli, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla per i tipi della Rubbettino. Tale crisi è documentata, con ricchezza di dati, dai saggi di Andrea Zannini e Federico Poggianti. Dalle prospettive adottate da questi due studiosi, la composizione per aree disciplinari dei corpi organici dei docenti e i finanziamenti alla ricerca dell’Unione europea, emerge la progressiva, costante marginalizzazione delle scienze umane. Riguardo al primo aspetto, la flessione più marcata degli organici, dal 2007 a oggi, appartiene alle scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche, e a quelle dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, insieme alle scienze della terra e a quelle mediche (flessione che sarebbe da addebitare, per queste ultime, all’autentica Via crucis che attende l’aspirante alla docenza). Per quanto riguarda la ricerca, poi, dei 77 miliardi di euro stanziati dal programma Horizon 2020 (2014-2020), solo 1,3 sono stati destinati alle scienze sociali e umane; all’interno di quest’ultimo raggruppamento, peraltro, sono stati finanziati 10.182 progetti nell’ambito delle scienze sociali e soltanto 30 in quello delle scienze umane (esula da questo breve scritto la questione epistemologica dell’esatta definizione di scienze sociali e umani e quindi della loro differenziazione). Gli altri saggi, come anche l’introduzione stesa da Galli della Loggia, intendono poi ricercare la ragioni di una simile débâcle.
Una “deculturalizzazione a base scientista” e una concezione della modernità egemonizzata dalla “ragione strumentale” (Galli della Loggia, pagina 6) in quanto funzionali alle richieste immediate del mondo produttivo, unitamente all’atteggiamento delle politiche di ricerca dell’Unione europea, volto a guardare con favore temi di carattere sovranazionale, non potevano che relegare al ruolo di cenerentola le discipline umanistiche, in quanto più legate alle specificità dei singoli discorsi nazionali. Se così è, se è vero che “la scomparsa dell’università legata al progetto dello Stato nazionale si manifesta innanzitutto nella forma del tramonto dell’insegnamento filosofico e storico-letterario” (Scotto di Luzio, pagina 39), allora non basta affermare che tale tramonto costituisce il tradimento della “missione millenaria” (Zannini, pagina 24) dell’università. Per impedire quel tramonto, occorrerebbe convincere (sforzo titanico, ça va sans dire) l’opinione pubblica che quel tradimento non va commesso. Quest’opera di convincimento non può poggiare su basi scientifiche, perché, come insegnava Weber, non è possibile argomentare, dimostrare scientificamente la necessità di conoscere i patrimoni culturali nazionali. A chi dovesse poi obiettare che la preservazione e la trasmissione di quei retaggi bruciano risorse che potrebbero essere impiegate in modo ben più redditizio in altri settori, la risposta non può darsi (e mi piace pensare che gli autori di questo prezioso volumetto siano d’accordo con me), poiché condannerebbe a una sicura sconfitta, sul terreno delle cifre e delle congetture economiche.
L’unica risposta ad avere una qualche, tenue speranza di essere accolta non può che essere pronunciata sul terreno del perfezionamento morale della persona (sul terreno, quindi, di una precisa gerarchia di valori, la cui superiorità su altre non può, ancora una volta, essere dimostrata scientificamente ma solo essere ‘sentita’ spiritualmente). L’unica risposta credibile è quella secca, ruvida che abbia il coraggio di dire all’interlocutore che una vita vissuta avendo come sola stella polare il Pil in crescita e il portafoglio pieno ma che abbia completamente disertato biblioteche, musei, siti archeologici e i classici della letteratura mondiale sarebbe una vita ottusa, bestiale, sprecata.
(*) Università addio. La crisi del sapere umanistico in Italia a cura di Giovanni Belardelli, Ernesto Galli Della Loggia, Loredana Perla, Rubbettino, & 1 altro, 142 pagine, 15 euro
Aggiornato il 18 settembre 2025 alle ore 09:26