
Un narratore per immagini, storico sociale del Belpaese. Ci lascia a poco meno di 95 anni Gianni Berengo Gardin, maestro del racconto fotografico. Sebastiao Salgado, altro grandissimo fotografo, anche lui artista di immagini di denuncia dal forte impatto emotivo, lo ha definito in modo totale: “Fotografo dell’uomo”. L’incontro con la macchina fotografica arrivò quando il “ragazzo con la Leica” era molto giovane. Insofferente al fascismo, Berengo Gardin prese in mano la macchina fotografica della madre e invece di consegnarla ai tedeschi, come era stato ordinato, andò in giro a fare foto. Nacque così, quasi per caso, la sua straordinaria avventura per raccontare l’Italia e gli italiani, in un mix tra le sue vicende e percorsi di vita che rispecchiavano, sovrapponendosi, quelle di un mondo che cambiava. Il trasferimento dalla Liguria a Roma occupata, poi al ritorno del padre dalla guerra, malato e senza lavoro, la famiglia che si spostò a Venezia dove per sbarcare il lunario lui si industriava a fare anche il bagnino, poi la Svizzera e Parigi dove lavorò come receptionist e dove conobbe i più grandi fotografi, da Robert Doisneau a Daniel Masclet, o personaggi della cultura, filosofi come Jean-Paul Sartre. E ancora il ritorno a Venezia, la scoperta, o meglio la “folgorazione”, per Life, la rivista che gli consigliò Cornell Capa, il fratello di Robert.
Poi i lavori per Longanesi al Borghese e al Mondo di Mario Pannunzio, con cui si sentiva più affine. Fotografò i cambiamenti sociali degli anni Sessanta, con i migranti nella Stazione centrale di Milano, l’humus che nutriva in quegli anni l’Italia, compresa la successiva contestazione giovanile, con la foto che immortalava la Celere che caricava di dimostranti in Piazza San Marco, l’impegno sociale, con i suoi scatti sui manicomi che lo avvicinarono a Basaglia, le amicizie con gli scrittori ma anche con gli imprenditori illuminati, con Olivetti, poi l’esperienza di Luzzara con Cesare Zavattini negli anni Settanta, fino al sodalizio con Renzo Piano negli anni Ottanta nei suoi cantieri, a Genova e nel mondo, poi la disperata allegria dei sinti negli anni Novanta, le risaie del Vercellese nel nuovo secolo e poi la sua l’ultima sua grande battaglia civile contro le Grandi navi, ritornando a Venezia, negli anni Dieci di questo millennio. Tutto sempre stampato in bianco e nero: “Il colore distrae” sosteneva, a ragione. E tutto rigidamente analogico: i suoi scatti sono tutti rigorosamente in pellicola. Instancabile lui e la sua arte che non ha mai finito di affascinare il pubblico. Solo quest’anno erano ancora tante le mostre fotografiche organizzate per raccontare le sue mille voci.
Fino al 28 settembre, ad esempio, resta in cartellone alla Galleria nazionale dell’Umbria a Perugia, la mostra Gianni Berengo Gardin fotografa lo studio di Giorgio Morandi, 21 scatti che documentano i luoghi dove ha lavorato il grande pittore emiliano e dove sono nati i suoi capolavori per raccontare la stratificazione di luoghi tanto vissuti, l’usura e la familiarità evidente con quelle stanze che sono state abitate ogni giorno per anni. Sempre fino a fine settembre si può vedere a Volterra una selezione di 24 suoi scatti commentati da artisti, amici, intellettuali, colleghi del fotografo: da Carlo Verdone a Renzo Piano, passando per Marco Bellocchio, Mario Calabresi e Lea Vergine, fino a Sebastiao Salgado. Ed è stato l’Istituto italiano di Cultura di Londra diretto da Francesco Bongarrà ad ospitare una delle ultime mostre di Gianni Berengo Gardin. Fino a fine giugno nelle sale di Belgrave Square gli scatti in bianco e nero del maestro, con quelli a colori di Filippo Romano hanno dato vita a Insulae Aqua, un’esposizione che ha riscosso un buon successo di visitatori nella capitale britannica.
Aggiornato il 08 agosto 2025 alle ore 14:39