
Viviamo in un tempo in cui la parola sembra aver perso peso e profondità, dove ogni idea è spesso ridotta a uno slogan, e ogni obiezione a un’arma. Nei social, che dovrebbero essere spazi di dialogo, si è fatta strada una modalità di comunicazione che somiglia più a una lotta rituale che a uno scambio di pensiero. Non si discute: si attacca. Non si ragiona: si etichetta. E soprattutto, si insulta. Ma l’offesa è la negazione stessa del pensiero. Offendere è spesso il modo in cui la mente nasconde la propria fragilità dietro un’apparente forza verbale. Ma chi davvero comprende ciò che pensa, non ha bisogno di cercare di ferire. Anzi, è proprio nella lucidità delle proprie ragioni che nasce la capacità di renderle condivisibili senza aggredire. A una simile cronicizzata tendenza sarebbe tuttavia inutile rispondere con il biasimo, mentre potrebbe essere assai più efficace il cercare di risvegliare in chi ne è afflitto il senso stesso del confronto dialogico, che col pensiero è essenzialmente collegato. Per essere tale, infatti il pensiero non può che procedere attraverso la fatica del confronto e il coraggio dell’ascolto.
È possibile, e anzi necessario, ascoltare le ragioni di tutti. Anche quelle che non si condividono. L’ignorare questa necessità rende un confronto autentico quasi impossibile, e quando questo accade diventiamo incapaci d’intendere le rispettive ragioni. E dunque urliamo di più per farle sentire, dimenticando che il pensiero non urla, non etichetta, non delegittima. Chi insulta l’interlocutore lo fa spesso per sottrarsi alla responsabilità di capire, e ciò perché capire è faticoso, richiede conoscenza, pazienza, e anche una buona dose di empatia. Richiede anche il rischio di scoprire che forse, almeno in parte, avevamo torto, o che c’è comunque sempre una ragione per cui l’altro pensa ciò che pensa: magari una premessa errata, un errore nel ragionamento, una condizione emotiva che ne confonde l’analisi, oppure semplicemente l’attribuire una priorità a valori diversi, e l’insieme di queste circostanze o possibilità è purtroppo da molti percepito come un rischio, come un fattore destabilizzante, come un attacco diretto alle stesse premesse su cui si fonda la propria personalità.
Eppure, i giganti su cui edifichiamo da secoli il nostro modesto sapere ce lo avevano spiegato, e non smettono mai di ricordarcelo attraverso la testimonianza dei loro scritti. La conoscenza, o sa trarre piacere dal dialogo e dal confronto, o ha le gambe corte, e spesso anche il naso lungo. Quest’approccio prende forma compiuta per la prima volta nel pensiero di Socrate, forse il supremo maestro del pensar-dialogando, così come emerge dai dialoghi platonici: “Il dialogo è il modo in cui la verità emerge: interrogando e rispondendo, ci si purifica insieme dall’ignoranza” (Gorgia, 457c-e); ed era stato sviluppato, oltre che da Platone, anche da Plutarco, l’autore greco che nei Moralia sostiene che “la mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere” (De audiendo, paragrafo 48C), operazione in cui un autentico spirito dialogico può riuscire molto bene.
In un’epoca dominata dall’urgenza dell’affermazione individuale e dai monologhi ininterrotti dei social, parlare davvero con qualcuno è diventato invece un atto raro. Eppure, la conversazione – quella vera, animata dal piacere di scambiare idee, dalla curiosità per l’altro e dal gusto della riflessione condivisa – ha sempre rappresentato per filosofi e scrittori un’esperienza decisiva, quasi un’espressione alta dell’umano. La parola non è solo strumento, ma terreno comune, luogo d’incontro. Così la pensava già Michel de Montaigne, il cui scetticismo era tutt’altro che rinuncia al pensare: “La parola è metà di colui che parla e metà di colui che ascolta”, scriveva nel libro terzo dei suoi Essais (1588). La conversazione, per lui, non era un esercizio di retorica, ma una danza lenta e paritaria, un’occasione per mettersi alla prova e ascoltarsi meglio.
Si tratta di indicazioni che oggi, in una cultura che spesso scambia il sapere con l’accumulo d’informazioni, valgono forse più che in ogni altra epoca, e ci ricordano che il pensare dialogando è in grado di generare in ciascuno nuove idee, spesso migliori delle vecchie, installando in noi dubbi forieri di nuove prospettive teoriche spesso decisive per non perseverare nell’errore. Naturalmente, saper dubitare non comporta affatto il non avere delle convinzioni, né il rinunciare a difenderle con i migliori argomenti che si è capaci di produrre, e non comporta quindi alcuna postura relativista, né in ambito conoscitivo né in ambito morale o politico. A questo proposito, in un post su X di qualche giorno fa, il cardinale Gianfranco Ravasi ricordava un’annotazione preziosa del Papa umanista Pio II: “Chi più sa, più dubita”, aggiungendo poi che “nella vita, che è delicata e complessa, ci sono due tipi di errori: dubitare di tutto e non dubitare di niente!”.
Circa un secolo dopo Papa Piccolomini, Giordano Bruno, filosofo errante e irriverente, coglieva nella disposizione al dubbio la condizione stessa della conversazione feconda: “Chi da sé non dubita mai, difficilmente potrà imparare dal discorso altrui” (La cena de le ceneri, 1584). Non c’è verità che non passi per l’umiltà di mettersi in gioco, ed è questa consapevolezza che spinge Hannah Arendt a sostenere che “il parlare con gli altri e il pensare da sé non sono soltanto attività connesse, ma attività che si presuppongono a vicenda” (La vita della mente, 1978). Il pensiero, in fondo, si fa voce solo quando incontra un interlocutore. Italo Calvino, nel suo ultimo ciclo di conferenze, le Lezioni americane, aggiunge una sfumatura essenziale: il dialogo è anche spostamento, capacità di lasciare la propria posizione per esplorare quella dell’altro: “Ogni conversazione vera è un’arte del sentire l’altro e dello spostarsi, almeno un po’, dalla propria posizione” scrive nella lezione sulla molteplicità.
C’è poi chi, come Karl Popper, vede nel dialogo persino una salvaguardia contro la violenza. Il confronto tra idee, dice, è ciò che evita lo scontro tra corpi: “La vera razionalità consiste nel permettere alle idee di combattere tra loro per evitare che lo debbano fare le persone” (La società aperta e i suoi nemici, 1945). Anche grazie a convinzioni come questa, Popper dimostrava un ottimismo razionale che condivideva con il suo predecessore liberale John Stuart Mill, secondo il quale “la verità emerge solo attraverso il libero confronto di opinioni contrastanti” (On Liberty, 1859). È nel dissenso che la verità si affina, non nell’eco. Il filosofo e poeta statunitense Ralph Waldo Emerson pose invece l’accento sul legame che si crea con chi ci ascolta senza giudicare: “Il vero amico è colui con cui posso pensare ad alta voce” (Essays: First Series, 1841). Pensare ad alta voce: forse è proprio questo il cuore della conversazione. Non persuadere, non avere ragione, ma pensare insieme. Ed è ciò che anche Cicerone celebrava nella sua Laelius de amicitia: “Non c’è nulla che più edifichi l’animo e più rallegri la vita dell’uomo della conversazione con amici sapienti” (XXIV, 90).
In tempi come questi, in cui il confronto rischia di diventare solo contesa e la parola spesso si trasforma in arma, rileggere queste sentenze, anche se estratte in modo lapidario dal loro contesto, può ricordarci che il dialogo non è solo un modo per trasmettere pensieri: è esso stesso un pensiero in movimento, una verità condivisa, ma sempre provvisoria, e per questo capace di trasformarsi e trasformare chi si mette umilmente al suo servizio, senza confonderla con gli idoli o i monumenti che lo spirito del tempo ha installato, spesso a nostra insaputa, nelle zone più oscure e meno critiche della nostra coscienza.
Aggiornato il 05 agosto 2025 alle ore 15:49