
Centocinquanta dalla nascita, settanta anni dalla morte, di Thomas Mann. Nessuno può concepire, oggi, chi fu Thomas Mann per i ragazzi degli anni Cinquanta. È stato l’Autore. Personalmente, strabiliavo. Leggevo con la medesima urgenza André Gide e Thomas Mann, dissimili e simili. Accennerò. Come torniva il periodo, Mann, che ben parlare nei discorsi cominciati e chiusi con tocchetti mutativi dal dire corrente, ma non spezzature, periodi mozzi, non termini tronchi. Uncinetto, leggerezza, anche quando si insatanava nel male dell’uomo. Un signore perbene, distinto. Eppure argomentava faccende sostanziali. Temeva lo scatenamento dell’irrazionalità. Che il ritrovamento del sentire fosse inciso nella violenza, ferinità e l’uomo non vivesse il sentire nella sfera della ragione, piuttosto, la ragione da un lato, l’istintività animalesca dall’altro. Mann, tedesco, conosceva il pensiero recente del suo Paese, Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, e le semplificazioni irrazionaliste che si attribuivano ad entrambi. D’altro canto, sgradiva la razionalità calcolante, la ragione come relazione opportuna tra mezzi e fini, utilitaristica, non sostanziale. Era scomparsa la ragione sostanziale?
Raggiungere lo scopo, quale che sia, è questa la ragione? Ne discuteva Max Weber, Sigmund Freud centrava la tensione dell’inconscio con la frenatura del conscio, la ragione, un dinamismo irrisolto dell’uomo. Mann era fedele a un ideale umano, il borghese aristocratico, la nobiltà dello spirito. E però temeva che il borghese perdesse aristocraticità e spirito, ossia arte, anzi che arte e artista fossero patologia in tempi di razionalità strumentale, calcolatrice dell’utile. Un groviglio, che si attuò per alcuni anni nella connivenza tra borghesia calcolatrice, ragione strumentale, mezzi-fini utilitaristici e bestialità dell’uomo come affermazione della volontà di vivere resa volontà di potenza. Il nazismo. Molti, allora, si diedero alla fiducia nel proletariato, e dunque nel marxismo, e dunque nel comunismo, e perfino nell’Unione sovietica.
Leggevamo, leggevo Thomas Mann con lo sguardo valutativo del critico letterario esemplare in quegli anni, György Lukács. Lukács stimava consistentemente Mann, reputandolo uno scrittore realista nel significato marxista; coglieva i vizi della classe, la borghesia, alla quale era tuttavia stretto. Io trasferii questo giudizio su Alberto Moravia in un saggio che Moravia pubblicò su Nuovi Argomenti: borghesi critici della borghesia, senza alternative di classe ma che non pervengono al nichilismo. Anzi tentano la riproposizione valutativa dell’uomo, in specie con l’arte, anche se l’artista è un malato, forse irregolare, forse escluso. Mann, comunque, non credeva che le forze brutali, violente, scatenate fossero “vita” né credeva che il proletariato rappresentasse l’erede dei valori negati dalla borghesia e vantati a parole: libertà, uguaglianza, fraternità. Questa ipotizzata realizzazione dei principi borghesi non adempiuti dai borghesi ma che sarebbero stati attuati dal proletariato, convinsero moltissimi, allora. E delusero moltissimi. Il proletariato non sostituisce la borghesia. Mann sapeva coniare la frase, mantenere dignità espressiva, stabilire il livello. Personaggi colti, discussioni necessarie, esistenziali, la malattia fisica e soprattutto la malattia morale o mentale lo colmavano. Il primo testo risonante, I Buddenbrook, un romanzo sulla borghesia con espansione in deviazioni, decadimenti psicologici.
Dopo, La montagna incantata, trasse: il pericolo della malattia, dicevo, del corpo e della sfiducia nella voglia di vivere, stare in entrambe le malattie, anche La morte a Venezia, anche Tonio Kröger, anche Disordine e dolore precoce: omosessualità, erotismo precoce, dissonanza dell’artista con la società. Mann continuava Johann Wolfgang von Goethe: la caoticità vissuta, osservata, “compresa”. E Mann viveva tale condizione. Apprendemmo anni posteriori che l’uomo nitido, il tornitore classico era agitato dall’omosessualità, forse incestuoso, e di apollineo aveva la scrittura che rendeva terso il dionisismo. Banalizzo. Ero totalmente estimatore di Mann. Su Nuovi Argomenti scrissi un testo dal titolo: Nobiltà dello spirito, che veniva da Mann. E restai fedelissimo a questo scopo nella vita. Senza aristocrazia culturale svanisce la civiltà. Però Thomas Mann non lo leggo come non leggo Gide come non leggo Moravia. Fu tale l’amore che se, sventura, non dovessero apparirmi quali mi apparvero sarebbe vedere una donna bella amata, vecchia di rughe e strascicata di gambe. Non accadrebbe? Lì ho amati troppo. Non rischio! In ogni caso: nobiltà dello spirito!
Aggiornato il 29 luglio 2025 alle ore 16:09