Appena pubblicato, il libro Le radici teologiche della proprietà mostra come le principali religioni riconoscano nella proprietà privata un fondamento sacro e naturale, opposto all’arbitrio del potere. Un percorso interconfessionale attraverso testi sacri e tradizioni
Cosa accade quando la teologia incontra la proprietà? Nel libro “Tra cielo e terra. Le radici teologiche della proprietà” (curato da Sandro Scoppa, Confedilizia Edizioni – Tramedoro, 2025), appena pubblicato, studiosi di diverse fedi – cattolica, protestante, ebraica, islamica – offrono una risposta potente e inattesa: la proprietà privata non è solo una costruzione giuridica o un’invenzione borghese, ma un principio profondamente radicato nella dimensione religiosa dell’uomo. E il suo riconoscimento non dipende dallo Stato, ma lo precede e lo limita.
A chiarire il senso dell’opera è la prefazione di Giorgio Spaziani Testa, che ribadisce l’importanza di un'opera che si inserisce nel più ampio progetto culturale della collana “Biblioteca della proprietà”, promossa dalla Confedilizia, la storica e rappresentativa associazione della proprietà immobiliare, proseguendo la riflessione avviata con il precedente volume “Sacre Scritture e ricchezza” e contribuendo ad ampliare il dibattito sulla proprietà come fondamento della libertà.
Un’impostazione ben delineata già nell’introduzione di Sandro Scoppa, dove quest’ultimo afferma che: “Affrontare il tema delle radici teologiche della proprietà significa doversi immergere in una visione antropologica e morale che riconosce la proprietà privata (…) come un diritto naturale dell’uomo, strettamente legato alla sua dignità”. Non si tratta dunque di una concessione del potere, ma di un fondamento originario, che precede le costruzioni politiche e limita ogni arbitrio pubblico.
La pubblicazione mostra come questa visione non sia esclusiva di una singola tradizione, ma è comune a tutte le grandi religioni. Per la teologia cattolica, come evidenzia Andrea Favaro, “il settimo comandamento proibisce di prendere o di tenere ingiustamente i beni del prossimo (…) e prescrive implicitamente la giustificazione dell’esistenza di beni propri di un singolo”. Di più: “La proprietà privata rappresenta uno strumento necessario di responsabilità e, quindi, di autonomia e, così, di essere persona”.
Nella concezione ebraica, secondo Paola B. Helzel, la proprietà non si configura come assoluta e perpetua, ma si caratterizza per il suo legame con la responsabilità individuale all’interno della comunità. Come scrive l’autrice: “In tale concezione si identifica una nozione di proprietà identica a quella di un possesso o appropriazione transitori e reversibili”. Un diritto, dunque, che non esclude la legittimità del possesso, ma la subordina a precisi limiti morali e religiosi, come dimostra l’istituto del giubileo, volto a impedire accumulazioni durature e a mantenere l’equilibrio tra i membri della collettività.
Il contributo evangelico – illustrato nel saggio di Paola Chiarella – mette in evidenza la centralità della libertà individuale e la valenza morale attribuita al lavoro, al successo economico e alla proprietà. Seguendo la lettura weberiana, l’etica protestante è presentata come uno degli elementi che hanno favorito la nascita del capitalismo moderno, promuovendo una visione della ricchezza non come ostacolo, ma come possibile espressione della grazia divina. In tale contesto, la proprietà privata assume una funzione essenziale, intrecciandosi alla responsabilità personale, alla laboriosità individuale e alla dignità sociale riconosciuta al singolo. Nell’approfondimento sull’Islam, Massimo Abdellah Cozzolino riporta un principio fondamentale: “Il concetto di doppia proprietà – umana e divina – è una delle caratteristiche dell’economia islamica. (…) Ciò che sembra essere proprietà è in realtà una questione di amministrazione fiduciaria, per cui abbiamo l’autorità temporanea di gestire e beneficiare della proprietà”. Anche qui, quindi, la proprietà è lecita, ma vincolata da obblighi etici e sociali: una responsabilità, non un privilegio.
Ma è soprattutto il richiamo alla genesi spontanea delle istituzioni a rendere il volume profondamente attuale. Il medesimo curatore, Sandro Scoppa, citando Carl Menger, fondatore della Scuola Austriaca di Economia, scrive che: “Si sono sviluppate spontaneamente, ossia senza che nessuno le abbia progettate a priori”. È il principio di ordine emergente: moneta, mercato, linguaggio, proprietà non nascono da un disegno, ma da un adattamento progressivo e decentrato. Lo stesso Hayek, richiamato a più riprese, si contrappone all’idea che l’ordine sociale debba essere costruito dalla politica: “Si è così consolidata l’idea di un ordine sociale progettato intenzionalmente (…) In questa visione, alla ragione è stato attribuito il compito di concepire l’ordine sociale, mentre alla politica è stata assegnata la funzione di tradurlo in azione”. È un’impostazione che sfocia nel dirigismo e nell’idolatria della pianificazione.
Il testo rifiuta sia l’anarchia della forza, sia l’arbitrio del potere statale. La proprietà privata emerge come istituzione di pace, di responsabilità, di ordine. Per dirla con le parole del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, essa: “Assicura ad ognuno lo spazio effettivamente necessario per l’autonomia personale e familiare” e va considerata “come un prolungamento della libertà umana”.
L’analisi non si ferma alla teologia: tocca anche la storia giuridica e politica. Dal diritto romano, che per primo distingue tra possesso e proprietà, al medioevo feudale, alla rivoluzione industriale, il libro mostra come la proprietà privata sia sempre stata il cuore della libertà. Come nota ancora il citato curatore, citando Richard Pipes: “La capacità di possedere e disporre liberamente dei beni era considerata una garanzia contro l’arbitrio del potere statale e un elemento cruciale per la stabilità sociale e politica”.
Nella parte finale, anche l’ateismo viene chiamato in causa. Domenico Bilotti analizza il rapporto tra secolarizzazione e diritto di proprietà: “Il dibattito giuridico continua a considerare la proprietà una libertà fondamentale per la realizzazione individuale”, anche al di fuori di una visione religiosa. Nei regimi atei, invece, la proprietà è stata soppressa insieme alla fede, e il risultato non è stato né razionalità né progresso, ma schiavitù e miseria.
Infine, la postfazione di Carlo Lottieri rafforza il nucleo teorico del volume, sottolineando come il riconoscimento della proprietà privata sia incompatibile con le pretese dello Stato moderno di pianificare, tassare e redistribuire in nome di un presunto bene collettivo. La vera alternativa non è tra egoismo e solidarietà, ma tra libertà e potere.
La conclusione è semplice ma decisiva. La proprietà privata non è né un vizio da tollerare né un privilegio da redistribuire: è un’istituzione spontanea, radicata nell’esperienza umana, nel diritto naturale, nella religione. Non è contro Dio, ma istituita da Dio, “per proteggere l’individuo dall’arbitrio del potere”, come scrisse Juan de Mariana nel 1599 nel “De Rege et Regis Institutione”. Un principio che ogni Stato dovrebbe rispettare. E che ogni cittadino dovrebbe difendere.
Come notazione a margine, non va dimenticato che il libro è dedicato alla memoria di Lorenzo Infantino, recentemente scomparso: una testimonianza di affetto dei direttori della collana, degli editori, del curatore e di molti degli autori e, allo stesso tempo, del legame tra il pensiero autenticamente liberale del professore e l’idea di ordine spontaneo come difesa della libertà individuale di scelta e limite al potere.
Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 09:52