Tra Fellini e Burri: il sogno in Antonio Telesca

Non c’è molto da stupirsi se in Esiodo il famoso proemio dell’investitura poetica delle Muse eliconie si risolve alla fine in un sogno vesperino del poeta di Ascra.

È il fenomeno onirico che è una veggente condanna della verità e larte n’è sempre stata la sua complice segreta per i capolavori dellumanità.

L’avvio, infatti, delle Opere e Giorni sarebbe a questo punto ufficializzato proprio da un’esperienza onirica, da un oinos con cui l’arte poetica avrebbe potuto essere consacrata alle stesse divinità omeriche.

Ma il topos del sogno come iniziazione all’immortalità dell’opera d’arte compare quasi un millennio dopo anche in Dante alcuni mesi prima che si accingesse col “bello stilo” a comporre la prima stesura della Divina Commedia. Questo sogno, affermerà il poeta fiorentino in una delle sue lettere a Cangrande della Scala, gli avrebbe garantito l’unicità e l’organica complessità dell’intero progetto come una vera e propria impresa eroica in un tempo di disorientamento della bussola politica e spirituale umana. D’altro canto, l’importanza del ricordo onirico gli proveniva nel suo carisma intellettuale anche da una consolidata tradizione cristiana che afferiva all’archetipo del Somnium Scipionis di Cicerone e dall’opera commentario del filosofo Boezio all’omonimo dialogo ciceroniano.

Quello del sogno non è stato solo un tema all’interno della letteratura scientifica e poetica occidentale, ma si è versato in profondità delle arterie sociologiche della nostra storia sia politica che culturale, plasmando in larga misura anche le nostre scelte civiche ed etiche.

Pasolini lo aveva inizialmente rimesso all’attenzione dell’opinione pubblica proprio mentre il suo maestro Ungaretti lo presentava come culto estetico della sua poesia, tanto da comparire come elemento determinante per la trama delle sue prime riprese cinematografiche.

Negli stessi anni però comparvero sugli schermi delle sale italiane due grandi novità come Otto e mezzo (1963) e Amarcord (1973) che segnarono nella memoria degli spettatori un effetto del tutto straniante generato proprio dal ruolo che l’elemento onirico, quasi onnipresente nella struttura diegetica dei film di Fellini, giocava nel piano mimetico dell’opera. Otto e mezzo nacque nella mente di Fellini non certo come risultato di isolamento dalla temperie culturale che aveva offuscato la libertà d’espressione prima degli anni ’50. Al contrario appariva non a torto come la risultante delle suggestioni che stavano lasciando in concomitanza artisti come Alberto Burri.

Nel 1967 uscì il suo Rosso plastica e qualche anno dopo, inizi anni ’80 fu avviata la costruzione del famoso Cretto di Gibellina. Burri non era un sognatore come Modigliani, ma era un “incubatore”, anche a livello letterale data la sua matrice neocubista ereditata dall’idolo picassiano, che nel segno plastico e amorfo della materia addensava l’espressione irrazionale, ancestrale ed enigmatica dell’incubo. E l’incubo costituiva per Burri non il lato fiabesco del sogno, ma proprio il suo lato presago, sinistro e profetico al tempo stesso. Pertanto, Guido di Otto e mezzo era l’incubatore del suo film proiettato dall’alter ego Fellini.

La reminiscenza felliniana riletta attraverso l’opera di Burri è quanto incide il segno di Sogno cromatico (acrilico su tela, 27x27cm, 2024) del pittore Antonio Telesca. L’asperità della linea policromatica che innerva la composizione, riformula plasticamente sulla levigata superficie della tela le escrescenze polimorfe di una materia ingenerata nello spazio, che non ha una sua origine definita, una sua codifica logica, e neanche una ragione familiare a quella umana.

Una morbosa oscillazione della forma indica quasi che l’oggetto qui presente si tratta di un incubo partorito durante la notte. La moltitudine dei colori adoperati è la spia per scovare un mostro circense, un “incubo pagliaccio” della nostra verità interiore.

La continua metamorfosi a cui sembrano tendere le masse di colori di Telesca getta all’immaginazione più scatti di memoria visiva, più scene quotidiane e oggetti di natura morta come racemi. Ma la natura stessa di ambigua visione tra gioia e angoscia, ci riportano il pathosformel del clown di Otto e mezzo che chiude con una processione quasi funebre di uomini-attori l’anello critico dell’incubo onirico del regista-artista.

Telesca chiude qui quella formula patetica del sogno come emblema catartico dell’artista vate, che vede quel che la ragione oscura di giorno, e lascia scoperto di notte.

Aggiornato il 04 luglio 2025 alle ore 12:51