
Aragoste a Manhattan (La cocina) è un film molto liberamente tratto dalla bella pièce di Arnold Wesker. Il drammaturgo inglese era figlio di immigrati ebrei russi. Nato a Londra nel 1932, è morto di Parkinson a Brighton nel 2016. Il testo teatrale, insieme all’intera nutrita opera di Wesker, ha avuto un notevole meritato successo. Oggi il dramma viene riproposto al cinema attraverso la regia del messicano Alonso Ruizpalacios. Ormai è una consuetudine. Si prende un testo valido e lo si ingabbia e, di fatto lo si distorce, secondo l’ideologia politica del regista. Il problema è delle politiche distorte di elargizione di fondi – economici – alla base di questo come di molti altri film attuali. Come una maionese impazzita, l’ideologizzazione sinistra, mal compresa comunista, crea mostri o film che non dicono quello che l’autore stesso ha voluto. Nel film sono “fotografate” storia e vicende di un folto gruppo di immigrati irregolari – senza documenti né assistenza sanitaria, tantomeno visto – i quali, entrati irregolarmente negli Stati Uniti, lavorano – sodo e ben pagati nel film – nel ristorante The Grill di New York. Sono colombiani, messicani, africani, pronti a qualsiasi cosa pur di lavorare nel ristorante.
Arruolati, lo si tenga bene a mente, da tale Rashid (Oded Fehr), immigrato regolare, integrato, e che ha fatto fortuna. Li illude, Rashid, recandosi nell’immensa cucina e promettendo loro il visto e la regolarizzazione statunitense: c’è chi lavora nel ristorante da sette, chi da cinque, chi da tre anni. Nella cucina, tra fornelli e apparecchi mal funzionanti, in un caldo senza fine, mentre fuori, dietro la porta di entrata e di uscita, in città, a New York, fa invece moltissimo freddo e si gela, emerge la vivacità di uno scapestrato, a tratti violento, messicano: Pedro (Raul Briones Carmona), figlio di un padre che non lo riconosce e lo sente mal volentieri e a fatica al telefono. L’uomo è innamorato di Julia (Rooney Mara), cameriera americana. Nel racconto nessuno sogna di tornare a casa, nessuno idealizza la famiglia, i figli. L’unico obiettivo è quello di restare. Il film è molto lungo, circa due ore e mezzo. Le immagini sono distorte visivamente, tutto è teso a disturbare lo spettatore: le scene sono in bianco e nero, il sonoro è rumoroso. La cucina viene rappresentata in tutte le peggiori sgradevolezze. L’atmosfera, mai riferita con buon profumo di cibo ben cucinato, è asfissiante, disturbata e disturbante. S’intende volutamente dare l’idea di un luogo di tortura – i corridoi sembrano infatti come delle prigioni. Si colgono piuttosto gli occhi ideologizzati del regista, che non “vedono” che bruttura e pochezza, e soprattutto vedono a senso unico escludendo qualsiasi altra visione e visuale. I buoni sarebbero sempre, nel film, gli immigrati irregolari e i cattivi sono rappresentati dall’immigrato regolare Rashid. Emerge l’odio di Pedro, straniero irregolare non assimilato e difficilmente assimilabile. È il verosimile riflesso di quello stesso malsano ed errato sentimento del regista nei confronti della stessa America che gli consente di fare film.
Aggiornato il 10 giugno 2025 alle ore 17:08