
Trentasei anni lui, famoso professore di filosofia; solo diciannove anni lei, la sua allieva talentuosa e fascinosa. La coppia famosa porta il nome di (Hannah) Arendt e di (Martin) Heidegger, l’una figlia di Israele, l’altro erede della “pura razza” tedesca, che lo porterà a condividere l’ideale hitleriano antisemita e totalitario di rinascita del popolo germanico. Sulla carta, un’unione praticamente impossibile, ma non se la si colloca nella sua esatta posizione temporale della prima metà degli anni Venti del XX secolo, in cui ruggiva la pazza speranza di una Weimar già moribonda. Sulla loro storia, il regista Piero Maccarinelli innesta magistralmente un suo personalissimo e bellissimo racconto teatrale di sicuro successo, intitolato La banalità dell’amore, in scena al Teatro India fino al 18 maggio. Per la parte tecnico-artistica, le belle scene sono di Carlo De Marino, mentre ai costumi ha provveduto brillantemente Zaira De Vincentiis, il tutto avvolto nelle sapienti luci teatrali di Javier Delle Monache. La pièce si avvale di una compagnia di bravi attori, che interpretano con grande passione e convinzione i loro complessi personaggi.
Molto interessante è già la scelta stessa della rappresentazione spazio-temporale di eventi che si svolgono a mezzo secolo di distanza l’uno dall’altro, mettendo assieme, isolate da un diaframma immaginario, l’anziana Arendt (Anita Bartolucci) e la giovane Hannah (Mersila Sokoli). La soluzione è stata trovata, rispetto all’osservatore, dividendo in modo immaginifico lo spazio sinistro da quello destro della rappresentazione, in modo che entrambe le protagoniste siano quasi sempre presenti contemporaneamente in scena e si completino le battute. Di là, à gauche (che corrisponde al periodo moderno della Banalità del male), un comodo divano con poggiapiedi, con una grande finestra che fa da vetrina, sotto la quale è sistemata una mensola con un candelabro a sei braccia, mentre nella mezzeria in comune campeggia sullo sfondo un piccolo scrittoio e, su di un piano appena più avanzato, si colloca un tavolo da pranzo. Di qua, à droite (periodo prenazista), un canapè dove si svolgono gli incontri tra il maturo professore e la sua giovane allieva, la cui storia sentimentale è raccontata fin dall’esordio, quando il conquistatore Heidegger subisce il colpo di fulmine, incrociando lo sguardo di Hannah tra gli allievi della sua nuova classe, all’inizio dell’anno accademico 1924.
Poi, malgrado una moglie gelosa e due figli piccoli, un Heidegger che si presenta a lei in privato, con la scusa del vicinato, nella casa di campagna dove la giovane Arendt era regolarmente ospite del suo compagno di studi e suo coetaneo, Raphael Mendelsohn (Giulio Pranno), segretamente innamorato di lei. Contemporaneamente alla tormentata storia d’amore che si svolge à droite, un’altra situazione ha luogo à gauche, dove un’anziana Arendt convalescente, alla disperata ricerca di una sigaretta proibita, si trova alle prese con l’intervista di un sedicente studente ebraico dell’Università di Gerusalemme, che si è presentato con il nome di Michael Ben Shaked (ancora Giulio Pranno), e che l’anziana professoressa ha scelto di ricevere, sperando così di chiarire e di dissipare definitivamente le ombre e le polemiche su di lei, a seguito della pubblicazione della sua cronistoria del processo ad Adolf Eichmann, intitolata, per l’appunto, La banalità del male. Il problema, però, è che ci si trova in presenza di una intervista-trappola, condotta ai fini di una particolare e complessa vendetta personale dal giovane pseudo-giornalista e dottorando in filosofia che, però, si fa scoprire sbagliando clamorosamente alcuni principi filosofici di base. Ovviamente, per cause tutte sue, chiarite soltanto nel finale a sorpresa, il giovane Ben Shaked è interessato a parlare solo della relazione amorosa tra Hannah e Martin, riuscendo a far maturare l’ira ragionata della professoressa nei confronti del suo mentore.
Così, ne viene fuori un’immagine totalmente logora del superuomo Heidegger, che non sa chiedere scusa a nessuno per gli errori del suo passato nazista. Un Martin sprezzante e altezzoso che prima dell’avvento di Adolf Hitler ha “usato e abusato” dell’ebreo per fare carriera, nella figura di un suo famoso collega (Edmund Husserl) di cui era stato assistente, salvo poi, giunte le leggi razziali, rinnegarlo nella sua qualità di rettore dell’Università di Friburgo, fino al punto di impedirgli persino l’accesso alla biblioteca dell’Istituto. E lo stesso farà Martin con la sua bella, dotata amante ebrea che lo affascina con la sua intelligenza, ma dalla quale nello stesso tempo lo respinge la sua intolleranza ideologica nei confronti della razza ebraica. Giungendo persino a ignorarne l’esistenza per i lunghi dodici anni di esilio della Arendt, fuggita prima in Francia, dove fu detenuta dopo il 1937 come apolide illegale, e poi riparata nel 1941 in America, assieme al suo secondo marito Heinrich Blücher e alla suocera.
Negli Usa, Hannah divenne la prima docente presso la cattedra di Teoria politica dell’Università di Chicago, per poi passare a insegnare in altre prestigiose università americane. Un passaggio molto bello e delicato dello spettacolo, riguarda proprio la questione della germanità degli ebrei tedeschi, del loro profondo amore per la musica e la cultura letteraria tedesca: una sorta di soggezione e di sudditanza reverenziale, che non li abbandonerà mai nemmeno durante e dopo le terribili persecuzioni razziali. E sarà proprio il giovane finto giornalista, portatore di questa aspra critica di fondo da parte di determinati settori della comunità ebraica mondiale, a far notare alla Arendt questa insanabile, colpevole contraddizione, mentre l’anziana Hannah, per tutta risposta, confesserà a un decadente Martin Heidegger il suo amore incontaminato, malgrado l’assoluta incapacità di lui a trovarne conforto. Spettacolo imperdibile.
Aggiornato il 09 maggio 2025 alle ore 13:57