La “meteorite” dell’arte contemporanea
La nostra pittura, quella con cui intendiamo l’arte mutata del Novecento, è un linguaggio che non ha mai smesso di cercare il contatto tra l’uomo e il tempo. La lingua pittorica degli ultimi decenni sta tentando di ricostruire, almeno nell’oltreoceano e nel basso Atlantico, la situazione prebellica a cui si trovò di fronte Pablo Picasso per la nascita delle Damoiselles, che vedeva una profonda crisi tematica dell’Arte. Picasso agli inizi del secolo non riconosceva più il soggetto che potesse rappresentare l’arte all’interno del suo tempo, ma solo ciò che non poteva più rappresentare.
Oggi numerose correnti individualiste dell’arte contemporanea che ci arriva in Europa e penetra in Italia ripensano il concetto dell’inespressività della forma che ha occupato lo spazio dell’arte per quasi un millennio. Una forma che ridurrebbe l’arte, secondo le recenti parole di Alessandro Del Puppo, a “formalista”, cioè bloccata nella sua rete superficiale del verosimile.
Sebbene questo “formalismo” non sia oggi ancora da tutti gli artisti accordato come ostacolo alla lingua dell’arte, avendone dall’opera scultorea di Jago una manifestazione della funzione fondante dell’idea compositiva della materia, la maschera estetizzante che è recepita dalla “forma” tende a confondersi ciononostante anche con la sua astrazione immateriale.
L’arte dunque, nella sua stratificazione morale di chi la esegue, quando perde il senso della narrazione, diventa provocazione allo spettatore.
Lo spettatore che è chiamato a creare con la sua immaginazione l’opera è lo stesso di quello che ha assistito alla polemica “Banana” di Cattelan con cui si è trasferita l’essenza dell’arte definitivamente allo stato di inerzia, di scelta inerte del percepire, e non del capire.
Un riferimento in più al passaggio inarrestabile dal paradigma al sintagma sociale, cioè dallo stile alla moda, ci deriva dalla statua bronzea femminile che si staglia davanti a Palazzo Vecchio a Firenze, scolpita da Thomas J Price, in cui meglio si avverte il rumore con cui l’arte sprofonda nell’afonia totale della sua lingua attuale. Non è ironia quella che la ragazza promana dalla sua catalettica posa stante, della cui ascendenza eroica rimane soltanto il fatto di sorreggere a strumento un cellulare in mano.
Una vera ironia è invece quella che emerge da un linguaggio del tutto inedito dello stato dell’arte come sua matrice ideativa, nella pittura di Antonio Telesca, attraverso la cui opera si assiste a una riconversione tra simbolo e segno nel disegno.
Il pittore forenzese protagonista della recente mostra permanente Incanto, ancora aperta oggi nel centro di Forenza, è forse anche il responsabile di una nuova “meteorite dell’arte” contemporanea nel panorama non solo italiano ma anche europeo, che esprime all’interno di una geniale ricerca umana, la disumanità del nostro tempo.
Telesca è quel che diremmo caso limite della teoria dell’arte, sia osservando la disposizione in cui è calata la sua astrazione dal tempo verso un nuovo spazio che si prefigura come distonia umana, e dunque alieno, immerso nella serenità delle galassie lucreziane. Sia però nell’assistere alla sua unicità tra rito e atto, ovvero il momento in cui il pennello agita la superficie della tela ma sospeso da terra come lo sono i piedi sospesi, e le gambe appese a un trapezio.
La gestualità del dipingere rovesciato sulla terra è l’ambiguità del ritrarre oggi un mondo al contrario, in cui non è possibile che sia effettivamente ammesso un “contrario”.
L’idea del pittore di Forenza non è quindi una parodia del presente, come potrebbe richiedersi la lettura dell’opera di Cattelan o Thomas J Price, ma è l’eironeia, la finzione di ciò che è a noi presente.
E si chiama proprio Meteorite la sua opera con cui ha voluto catalizzare la velocità della nostra attualità, ma contornando anche l’importanza della rapidità che ci manca nel riconoscere la verità dell’uomo. La velocità non è la proprietà per cui il meteorite è noto a chi lo osserva, ma proprio la sua rapidità, la rapiditas con cui avviene il raptus del nostro sguardo verso la nostra terra dall’alto.
Nella tela l’acrilico percorre circolarmente 30x25 cm, e dismuove il senso visivo di chi guarda tutto alla base della meteora, dove il nucleo viene sfilettato dalla potenza d’impatto con cui essa è diretta nell’atmosfera terrestre, resa dal duplice registro tonale del verde e dell’azzurro. Anche qui però c’è un recupero antifrastico, quasi una contraddizione logica operata da Telesca, se il verde terrestre precede sopra l’azzurro celeste. La scompensazione logica dei piani dietro la meteora crea proprio la sospensione immobile del corpo situato apparentemente al rovescio della sua naturale direzione gravitazionale.
La gravità che Telesca conferisce al corpo alieno è la stessa con cui i corpi umani si distruggono reciprocamente senza una vera ragione naturale, ma soltanto ideologica.
La doppia punta che simula la combustione del meteorite è tra l’altro una chiara rievocazione semantica della fiamma dantesca in cui è racchiuso Odisseo nell’Inferno insieme a Diomede.
È dunque la fiamma dell’inganno quella che ricopre l’immagine disumana di Telesca, in uno stile così lontano da quell’astrattismo lobbistico cui è avvezza la contemporanea storia dell’arte, che ripropone il medesimo effetto straniante del Furioso di Ludovico Ariosto.
La lente con cui il pittore si vede ultimo paladino di una umanità che sta disconoscendo la sua fugace mortalità, è quella lunare, da cui si vede il mondo al contrario con tutti i suoi vaghi errori e orrori, che da lassù risalgono così vacui, così fumosi, che riducono la ragione a follia per chi agogna l’armonia.
L’esempio che Antonio Telesca ci lascia con la sua settantenne demiurgia dell’arte, in una performance confinante tra pittura e scultura, è ciò che squarcia le aspettative della nostra contemporaneità iconocentrica.
Aggiornato il 05 maggio 2025 alle ore 16:11