
Il lettore arrivato alla fine del libro intitolato Non dico addio, edito dalla casa editrice Adelphi, e di cui è autrice Han Kang, scrittrice a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura 2024, rimane incantato dalla perfetta e mirabile forma della narrazione, in cui si mescolano il racconto esistenzialista, il saggio storico, la poetica onirica con cui viene trasfigurato il reale. Nella parte iniziale di questo libro, Gyeong-ha è immersa nel sonno e si ripresenta nel suo inconscio un incubo ricorrente. Su di una montagna bassa, punteggiata da alberi neri di varia altezza, il mare avanza ed è in procinto di sommergere le tombe. Gyeong-ha è una giornalista che per anni ha lavorato per una rivista. Comprende subito, visto che il sogno si ripete in modo ossessivo, che il suo significato, di facile decifrazione, si riferisce al massacro avvenuto nel 1948 in Corea del sud sull’isola di Jeju. Oramai, Gyeong-ha vive da sola in un appartamento situato nella periferia di Seul. Al risveglio, riceve una chiamata telefonica della sua amica, una fotoreporter, con cui per lavoro ha viaggiato per tre anni in giro per il mondo.
In-Seon, che vive da sola sull’isola di Jeju nella casa dove per quattro anni ha assistito la madre anziana, la prega di raggiungerla in ospedale, dove si trova ricoverata, a causa di una amputazione che ha subito a due dita mentre lavorava nel laboratorio della sua falegnameria. Nella notte Gyeong-ha avuto un incubo. Nel sogno ha visto passare all’interno di una automobile di stato l’uomo che aveva dato l’ordine di sterminare i trentamila civili sull’isola di Jeju. Trovandosi al cospetto della sua amica, che sofferente nel letto sopporta il dolore provocato dalla amputazione delle dita, Gyeong-ha apprende che In-seon stava tagliando i tronchi per realizzare un cortometraggio sulla strage e il massacro avvenuto nel suo Paese di origine. In-seon, chiede alla sua amica di recarsi nella sua abitazione per accudire il piccolo pappagallo che rischia di morire in sua assenza. Sono belle le pagini che, mentre infuria la bufera di neve, descrivono il percorso compiuto da Gyeong-ha per raggiungere l’abitazione della sua amica.
Mentre i fiocchi di neve dalla forma elaborata ricoprono ogni cosa, creando una atmosfera onirica e di rara bellezza, Gyeong-ha ha la netta sensazione di poter distinguere ciò che è importante nella vita da ciò che è superfluo, e pone oltre la linea tracciata dalla sensazione di leggerezza, che la neve le consente di provare, le sofferenze, l’ansia per le condizioni di salute della sua amica, Il pensiero angosciante di dover salvare il piccolo e indifeso uccello. Arrivata a casa di In-seon, Gyeong-ha trova l’uccello morto, e in questa parte del libro la narrazione muta registro espressivo, poiché assume un chiaro andamento poetico e onirico. Quasi vi sia una realtà parallela, rispetto a quella reale, Gyeong-ha immagina che il pappagallo sia ancora vivo e che la sua amica In-seon si trovi nella casa. Sul muro di calce della abitazione, su cui la palma dall’esterno proietta ombre cupe, Gyeong-ha pensa al cortometraggio con cui la sua amica ha realizzato un’autointervista sul massacro della lega di Bodo. In-seon nella sua autointervista, con angoscia, evoca il numero dei civili uccisi in modo brutale, perché sospettati di avere scambi e di essere in contatto con i guerriglieri che si erano nascosti nella montagna di Halla. In-seon afferma che i massacri erano avvenuti su delle isole, come quella di Taiwan, vale a dire dei posti appartati e deserti.
È impossibile dimenticare la scena conclusiva dell’ultimo cortometraggio realizzato da In-seon, un primo piano ravvicinato senza spiegazioni lungo un tempo infinito, che mostra una fossa comune con centinaia di resti umani, resti con le ginocchia tenute al petto, resti con scarpe di gomma infilate sui piccoli piedi. All’improvviso, pensando alla scomparsa del pappagallo amato, In-seon, in questa parte onirica della narrazione, afferma guardando con affetto la sua amica, che qualcosa sia destinato a rimanere, malgrado la separazione che la morte genera e provoca. In-seon, con un tono pacato e senza ostentare rancore e risentimento verso i responsabili dei crimini avvenuti nell’isola, racconta alla sua amica che la madre e la zia erano sfuggite per caso alla rappresaglia dei giovani coreani del nord-ovest, spietati e crudeli verso i civili sospettati di simpatizzare con i guerriglieri comunisti. Infatti, i genitori di sua madre erano stati uccisi con ferocia e crudeltà. Gli ispettori, che avevano collaborato con i giapponesi durante il periodo coloniale, erano rimasti a loro posto e continuavano a torturare le persone, così come avveniva prima della liberazione.
Sia l’esercito, nel 1948, sia la polizia avevano linee di comando separate, ma i metodi si somigliavano per la brutalità e la spietatezza nel colpire i civili inermi e indifesi. Il padre di In-seon, che avrebbe sofferto di un tremore alle mani incessante, era stato catturato, dopo essere uscito dalla grotta in cui si era rifugiato, e torturato nella distilleria del porto di Jeju perché rivelasse i nomi dei complici dei guerrieri nascosti nella montagna di Halla. In-seon facendo delle ricerche in biblioteca, intorno a queste vicende storiche terribili e dolorose, aveva letto la testimonianza di un’anziana signora, che aveva rilasciato un’intervista a uno storico di un centro di ricerca coreano. La signora, il cui marito era stato un interprete della gioventù nordcoreana, che non conosceva il dialetto della Corea del sud, ricordava di avere visto delle persone allineate, in un gruppo di dieci sul perimetro della spiaggia, che venivano fucilate alle spalle, prima che un altro gruppo fosse passato per la armi allo stesso modo. Tra le vittime, i cui corpi venivano gettati nel mare, vi erano molti bambini, tenuti per la mano dalle proprie madri.
Lo zio di In-seon, che era stato arrestato e condannato a quindici anni di carcere, dopo la fine dei massacri, era sparito nel nulla e sia sua madre sia sua zia non avevano mai saputo quale fosse stata la sua sorte. Per molti anni il regime militare ha imposto il silenzio sui massacri dei civili perpetrati sull’isola di Jeju. Nel corso degli anni Duemila, i familiari della vittime in Corea hanno costituito un’associazione e chiesto la esumazione dei resti umani delle vittime, che si trovano nella miniera di cobalto. In-seon mostra alla sua amica i fogli ingialliti dei giornali che raccontano la cerimonia di commemorazione collettiva per le vittime del massacro di Gyeongbuk. Arrivati alla fine di questo libro magistrale, il lettore si chiede come mai nella storia umana l’odio ideologico provochi i massacri collettivi degli innocenti e la ragione metafisica della presenza incancellabile del male nella civiltà umana, al di là delle differenze culturali e politiche. Un libro molto bello e notevole.
(*) Non dico addio di Han Kang, traduzione di Lia Iovenitti, cura editoriale di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi Edizioni 2024, Fabula, 256 pagine, 20 euro
Aggiornato il 18 aprile 2025 alle ore 20:29