
Quando il presente inizia a macerare le idee del tempo che verrà, ecco che un pungolo interiore sollecita la giovinezza del genio al contatto con il sacro ignoto. Soprattutto se la povertà della materia trasferisce nel cuore di quel giovane partito da Milano per una Roma giubilare, la persecutoria ombra della colpa.
Michelangelo Merisi era quel giovane. La parentela paterna con l’aristocratica famiglia del marchesato di Caravaggio ereditato per ramo Sforzesco lo faceva nascere “sotto una buona stella” che lo avrebbe condotto da subito alla bottega di Simone Peterzano. Ma quella stella gli fu ambigua come la fortuna, perché poco prima di passare alla bottega dell’allievo di Tiziano, nel 1584 gli morì il padre. Caravaggio conobbe a soli 13 anni il lume funebre della candele che accompagnavano la tomba dell’unica figura che lo avrebbe dovuto proteggere e iniziare alla vita.
La vita iniziò tre volte per il giovane Caravaggio, e per tutte e tre le volte egli fu costretto alla fuga dal passato. La prima fu da Milano dopo il 1592, la seconda fu da Roma nel 1606, la terza ed ultima fu da Malta nel 1607, dopo che fu incarcerato clandestinamente.
Il passaggio di Caravaggio a Roma occupò però la fase centrale della vita del “pittore dell’ombra”, ed è qui che egli ricevette nella bottega del celebre Cavalier d’Arpino le maggiori e principali conferme delle sue intuizioni morali e spirituali che ebbe dopo la morte del padre.
Del Caravaggio romano si tende a considerare i primi dipinti di quella bottega come precursori delle sue opere realizzate dopo il 1599, anno in cui compose il dipinto di Giuditta e Oloferne.
Tutti i soggetti che quindi conosciamo immersi in quel caratteristico fondo buio, scuro, in cui la luce sembra quasi un miracolo battere, sarebbero per la critica post-longhiana e per buona parte ancora purtroppo dei compilatori della storia dell’arte, i parametri con cui leggere i dipinti anteriori a quella data, dove cioè i fondi sono chiari o di natura paesaggistica.
Tra questi c’è un dipinto che è forse poco noto ai visitatori oggi e che però riveste un tassello prezioso per indagare quel processo ideativo di Caravaggio tante volte discusso quanto sfuggente nei suoi meccanismi non solo tecnici ma anche mentali: il Riposo Doria.
Non sorprende che quest’opera sia poco conosciuta nel corpus caravaggesco tuttavia se neanche all’attuale mostra “Caravaggio 2025” che si terrà aperta fino al 6 luglio 2025 alle Gallerie Nazionali Barberini Corsini è stato prestato insieme ad altri due di cui compongono la triade mancante nelle sale di Palazzo Doria Pamphilj. Oltre al Riposo infatti sarebbero dovuti essere presenti anche il San Giovanni Battista (la copia del cosiddetto San Giovanni Capitolino e la Maddalena penitente, rimasti invece fissamente stabili a Palazzo Pamphilj.
Il Riposo durante la fuga in Egitto, questo il vero titolo del soggetto, è un dipinto che nonostante le sue non imponenti dimensioni da dipinto da camera (135,5x166,5 cm) ha occupato nella pittura del giovane Caravaggio una travagliata impostazione iconologica e complesso simbolismo iconografico.
Della natura fortemente allusiva e teatrale della pittura caravaggesca se ne potrebbero citare qui molti esempi a sostegno, partendo dalla divisione tripartita della composizione, i cui laterali sono riservati, da sinistra verso destra, all’aridità veridica di San Giuseppe e alla umanità divina della Vergine, ma anche della fedeltà immaginifica della posizione cromatica alla narrazione didascalica del Cantico dei Cantici, che viene qui riportato non testualmente sul libro sorretto da Giuseppe, ma graficamente sulle note del mottetto del fiammingo Noel Bauldewijn.
Oltre l’ascendenza sullo fondo paesaggistico degli elementi di chiara derivazione giorgionesca e tizianesca, si pensi al moto visivo della Tempesta (1506-8), che connotano la scena biblica nei più inconsueti termini della quotidianità quasi accidentale, Caravaggio ha in mente anche Raffaello nel suo disegno allegorico delle parti binarie dialoganti, quali la sinfonia terrestre e la melodia celeste.
La corda mozza dell’angelo violinista non è nell’iconografia caravaggesca un mero attributo all’Estasi di Santa Cecilia dell’Urbinate con cui si vuole sottoporre al testo iconologico dell’opera una dimensione di emulazione topica. Piuttosto è ben diversamente così certa la manovra di Caravaggio, ben difficilmente anomala in questo dipinto così come è avvenuto qualche anno prima nel Mondafrutto (ca. 1593-94), che si tende ad alzare di quest’ultimo la proposta di datazione di un paio d’anni più tardi. La inquieta presenza di una natura morta adagiata quasi in penombra sotto la figura di san Giuseppe detta in sordina anche il registro concettuale a cui pertiene il violino “disarmonizzato”, “scordato” e per questo diseredato dal dogma cristologico dell’irriducibilità in rationem della favella celeste, che intona, come direbbe più tardi Mozart sull’orma di Dante purgatore, e non suona.
Il canto è prerogativa degli angeli in quanto messaggeri del verbo del Padre Eterno (si ricordi ἄγγελος , ànghelos è “l’annunciatore”), eppure quest’angelo suona, fa tutto l’opposto dell’incarico per cui è stato creato. Se non intona il canto della melodia celeste, non riesce tuttavia neanche a suonare le note della fugacità terrena, essendo inerti e spezzate le corde del suo liuto. Le corde dell’armonia non sono più tese nel verbo divino. Ma quindi cosa sta suonando quell’angelo?
L’angelo in Caravaggio non è stata mai una presenza così assidua nell’iter compositivo del pittore. Al contrario sembra che egli si sia davvero poco interessato a questo soggetto se soltanto dovessimo affidarci al suo effettivo numero di occorrenze nel corpus operis.
Quando però figura all’interno di un quadro per di più destinato ad un uso, non meglio noto come in questo caso, che da camera, il soggetto dell’angelo si ricopre ancor più di una polivalente veste semantica che ha in realtà poco a che vedere con la sua descrizione biblica. Se anzi è vero che fosse stato commissionato come sostiene Lothar Sickel dalla cerchia amicale stretta di Caravaggio, comunque non esclusa dai contatti della famiglia Aldobrandini, nelle cui mani passò per qualche tempo il dipinto, si può consolidare la proposta di lettura avanzata dalla critica recente di “idillio pagano”.
Nella fisionomia e nella postura dell’angelo musicista v’è infatti un dettaglio nascosto. E si tratta di un dettaglio che rientra stranamente nell’iconografia di un altro dipinto precedente poco più o meno di un anno del Riposo (1595-96) , ed è l’Ercole al bivio di Annibale Carracci. Nell’opera carraccesca si vede la stessa figura che mostrandosi di spalle allo spettatore e diretta con lo sguardo verso il semidio, è perfettamente allineata alla sagoma dell’angelo caravaggesco. Nell’Ercole al bivio questa donna seminuda coperta solo sulle terga da un sottile e voluttuoso velo, è in realtà la prosopopea del Vizio, la personificazione posta in antitesi alla Virtù che invece è al fianco sinistro di Ercole.
Caravaggio avrebbe usato i connotati fisici del Vizio carraccesco per rappresentare un angelo musicista che avrebbe potuto ricevere senza dubbio influenze di altri archetipi iconografici. Ma perché ha scelto il Vizio come modello formale per l’angelo?
Se prima di rispondere alla domanda indirizzeremmo lo sguardo verso tutt’altra direzione, come nella Sala dei Capitani del Palazzo dei Conservatori di Roma, oggi Museo Capitolino, realizzata ad affresco dal siciliano Tommaso Laureti nel 1587, ci accorgeremmo che anche qui, quasi in esatta corrispondenza della colonna che si sovrappone alla cornice, è presente una figura che invece ci dà chiare reminiscenze, identiche, alle forme iconografiche del Vizio del Carracci.
Anche qui si tratta di una donna di spalle, che subisce una mezza torsione di un quarto del busto, ed è coperta da una tunica che le scende dagli omeri. Il braccio destro è quello che accentua di più alla vista la torsione toracica. L’ambiente in cui è calata la donna è una vicenda legata a una delle virtù della classicità romana, e in questo caso la giustizia o vendetta di Bruto.
La soluzione sulla scelta caravaggesca del tipo iconografico del Vizio nell’angelo del Riposo Doria si fa allora molto più controversa e biunivoca di quanto ci prospettava la sola contraddizione tematica, se soltanto non osservassimo che quello stesso Mondafrutto era evocatore d’una certa impossibilità di libertà dell’uomo davanti all’Eterno, proprio mentre il frutto da “mondare” conteneva la contingente necessità della sopravvivenza per la felicità.
L’angelo viene qui in Caravaggio quasi nella stessa proporzione in cui il “dolce sacro” arrivava a Raffaello impregnato di sensuale bellezza.
L’angelo del Riposo Doria che riprende le fattezze del Vizio carraccesco è la testimonianza che con Caravaggio abbiamo la conversione della santità nella responsabilità, laddove all’uomo non è data facoltà di far germogliare il frutto dell’amore divino, ma solo dell’errore divino che ha ereditato l’uomo. L’uomo può raggiungere la santità non attraverso la perfezione ma, sotto una spinta che si direbbe a buon diritto oratoriana per il giovane Caravaggio, attraverso l’abdicazione dalla felicità per la beatitudine dell’errore, del vago, dell’Eterno.
Così una Maria è accasciata a terra mentre il suo sonno è riflesso del sogno divino che sta impersonando il Bambino dormiente vicino alla Santa Madre, mentre l’uomo Giuseppe è dissociato da quella dimensione perché può solo vedere attraverso gli occhi del quotidiano. Il divino ha come strumento di comprensione il sacer, cioè il maledetto, e la conoscenza umana è tesa al divino, ma lo concepisce tormentandosi continuamente, così come farà Caravaggio per tutta la sua vita.
Aggiornato il 07 aprile 2025 alle ore 15:39