Visioni. “La duplicità”, un inverosimile thriller a sfondo sociale

La duplicità di Tyler Perry è un film carico di eccessivi e improbabili colpi di scena. Uccisioni venate di razzismo, inganni, complotti e segreti inconfessabili costituiscono gli ingredienti di un thriller fiacco che usa maldestramente temi universali come il tradimento e la lealtà. Il lungometraggio, visibile dal 20 marzo su Prime Video, racconta un complesso caso giudiziario sull’assassinio di un afroamericano ordito da un poliziotto bianco. Ma il tema sociale è solo un espediente narrativo. Un’esca a cui fare abboccare lo spettatore. In realtà, l’autore 55enne, commediografo e regista originario di New Orleans, è interessato unicamente a sovvertire i luoghi comuni e stereotipi. Nonostante ciò, pur animato da lodevoli intenzioni, l’esito narrativo è infelice. Il film cambia continuamente tono, persino genere cinematografico. Inizia come un apologo antirazzista, si sviluppa come un film processuale e si conclude come un implausibile racconto di avidità. Così risulta presto evidente che l’unico vero obiettivo perseguito da Tyler Perry sia solo l’intrattenimento. Il film è popolato da protagonisti quasi esclusivamente afroamericani: Marley Wells (interpretata da Kat Graham), è una legale in carriera, compagna di Tony (Tyler Lepley), ex poliziotto che lavora come investigatore privato. La migliore amica della coppia si chiama Fela (Meagan Tandy), una giornalista televisiva il cui marito, Rodney (Joshua Adeyeye), appare freddamente ambiguo. Ma quando quest’ultimo, dopo l’allenamento quotidiano, si apparta insolitamente all’esterno di un’abitazione, viene chiamata in causa la polizia. A quel punto, l’uomo, disarmato, si trova di fronte due agenti: il capo, il nero Kevin (RonReaco Lee) e il neofita, il bianco Caleb (Jimi Stanton), che gli intima l’alt. Ma Rodney sta ascoltando musica e muore freddato da due colpi al petto. Kevin conosce Rodney e rimane turbato dall’omicidio. Il fatto di sangue suona come l’ennesimo episodio di violenza razziale di un poliziotto bianco ai danni di un afroamericano. L’evento delittuoso infiamma la rabbia della gente che protesta e inscena una vera e propria rivolta. Nel frattempo, l’avvocata Marley, sconvolta dall’accaduto, promette battaglia e, per conto della sua amica Fela, dà l’avvio, grazie all’impegno di alcuni giornalisti di inchiesta, a una casa di risarcimento milionario contro l’agente Caleb e le istituzioni della città. Ma, suo malgrado, scoprirà una verità sorprendente.

Tyler Perry costruisce il suo thriller con l’intenzione di spiazzare lo spettatore attraverso una serie di farraginosi imprevisti. Ma il continuo “cambio di campo” tra vittime e carnefici oltre che inverosimile risulta meccanico e prevedibile. Le rivelazioni non appaiono per niente inedite o sconvolgenti. D’altro canto, i personaggi, poco accurati, non consentono alcun tipo di introspezione agli interpreti. La direzione degli attori, infatti, latita. Non solo. La struttura narrativa è indubbiamente balbettante. La sceneggiatura è incoerente e gravida di dialoghi incerti e ridondanti. Per queste ragioni, il tema di denuncia sociale oltre che fuorviante, alla fine del racconto, risulta persino goffo oltre che offensivo. Si tratta, con tutta evidenza, di un pretesto per mettere in scena una storia banale di denaro e infedeltà coniugali. L’addestramento del giovane poliziotto bianco e del suo capo corrotto nero è un richiamo fin troppo scoperto al memorabile Training Day (2001) di Antoine Fuqua, interpretato da un superlativo Denzel Washington (premiato con l’Oscar) e da uno spaurito Ethan Hawke. Ma l’omaggio di alto profilo non si traduce in una resa narrativa efficace. Perché un fatto è assolutamente chiaro: La duplicità di Tyler Perry è un film sbagliato e presuntuoso.

Aggiornato il 04 aprile 2025 alle ore 18:30