Il “letteralismo”, l’Islam e la palestinizzazione dell’Occidente

Per lo psicoanalista americano James Hillman, allievo di Carl Gustav Jung, “la più grave delle malattie di cui soffre la psicoanalisi è il letteralismo. La cura di questa malattia consisterebbe nel riorganizzare il materiale clinico mediante l’arte narrativa e l’esercizio nell’uso di metafore: l’obiettivo dell’analisi infatti non consiste tanto nel conoscere se stessi, quanto nel cercare se stessi nel mito, là dove gli dei e gli uomini si incontrano”. Il “letteralismo” sarebbe in questo senso una malattia che affligge un’attività che, come la psicoanalisi, era nata per curare. Ma se questo è possibile, ciò dipende dal fatto che il “letteralismo” può, in linea più generale, essere considerato come una malattia dello spirito anche in altre sue manifestazioni.

In ambito religioso, per esempio, il “letteralismo” ha caratterizzato a lungo, e in buona parte caratterizza ancora, la religione cristiana. Galileo Galilei, per esempio, per difendersi dalle accuse che gli erano mosse di fare nelle sue opere affermazioni contrarie alle sacre scritture, sosteneva che queste, essendo testi di carattere religioso, non dovessero essere interpretate alla lettera per quanto riguardava le loro implicazioni conoscitive. Il vero senso della Scrittura non corrisponde infatti secondo Galileo al senso immediato delle parole, o al loro significato letterale. Infatti, chi si limitasse ad una interpretazione “letteralistica” della Scrittura dovrebbe poi accettare “non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anche talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future”. Una simile opzione può però non essere quella prescelta, perché le proposizioni dettate dallo Spirito santo, “furono in tal guisa profferite dagli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato”.

Circa un millennio e messo prima di Galileo, Origene (Alessandria d’Egitto, 185 – Tiro, 254) aveva già distinto possibili approcci diversi alla Sacra Scrittura: quello fisico o letterale, quello psichico o morale, quello spirituale o mistico. Si trattava di tre modi per esprimere il senso degli scritti sacri. Il primo e più semplice era quello letterale; il secondo, più complesso, comportava una riflessione sul senso che i passi di un testo sacro potevano avere per l’anima umana; e infine il terzo, quello ideale, si fondava sulla legge spirituale che contiene “l’ombra dei beni futuri”, e cioè sapeva indicare in modo intimamene persuasivo la strada giusta per raggiungerli in questa e nell’altra vita.

Per secoli la teologia cristiana ha cercato di andare oltre le proprie concezioni “letteraliste” e in parte sta ancora cercando di farlo, perché queste costringono ancora molti a una scelta difficile: o credere, rinunziando a ciò che la scienza, oltre che la logica, insegnano, o buttare a mare le sacre scritture, salvando però la propria integrità intellettuale dal naufragio. In questo contesto, de-letteralizzare l’Antico Testamento non è stato facile, ma è stato forse anche più difficile farlo con il Nuovo, a causa delle scelte interpretative razionali o paradossali che tale operazione imponeva. Certo, tutta la storia del cristianesimo – da San Paolo a Sant’Agostino, da Martin Lutero a Erasmo Da Rotterdam, da Blaise Pascal e Søren Kierkegaard, da una lunga serie di santi a una non meno lunga scia di teologi e filosofi – reca testimonianza delle domande irrisolte e dei dubbi spesso laceranti che hanno accompagnato ogni fede autentica.

Nel corso di questi secoli, il cristianesimo si è progressivamente emancipato dalle sue interpretazioni più letteraliste per confrontarsi con visioni del mondo e del sacro anche molto diverse, se non persino antitetiche, partendo per lo più dal presupposto che nessuna fede può essere considerata autentica se non affonda le sue radici in una coscienza libera, se non è cioè una libera scelta. Il cristianesimo ha cioè progressivamente introiettato le domande di Giobbe e le confessioni di Sant’Agostino e si è confrontato con la filosofia classica greca e con quella romana, filosofie precristiane da cui si è lasciato impregnare e che stanno ancora alla base della cultura laica dell’umanità; ha poi attraversato i lavacri del Rinascimento, della Riforma e dell’Illuminismo, senza mai rinunciare a fare i conti con la «ragione», in tutte le accezioni di questo termine che la storia della filosofia e della teologia hanno saputo declinare.

Anche l’ebraismo, per rimanere nell’ambito delle religioni monoteiste occidentali, ebbe un suo impatto con l’illuminismo che non fu privo di conseguenze rilevanti e in parte vi svolse un ruolo significativo. La Haskalah, l’illuminismo ebraico, si sviluppò in Germania e poi in buona parte d’Europa grazie in particolare a Moses Mendelssohn e Gotthlold Ephraim Lessing, che ebbe il merito d’introdurre il primo nel mondo degli intellettuali berlinesi. Gli illuministi ebrei, detti maskilim, di cui Mendelssohn fu il primo rappresentante, ritenevano necessario introdurre modifiche nel proprio modo di vita, in vista dell’incontro con le società europee. Nel 1781 Mendelssohn sostenne in un suo saggio, (Jerusalem oder über religiöse Macht und Judenthum) la tesi che il giudaismo non era d’ostacolo alla partecipazione degli ebrei alla società tedesca, dato che esso non ha alcuna pretesa di dichiarare “false” le altre credenze, e quella sua posizione non passò inosservata: Immanuel Kant, per esempio, colse subito in quell’opera di Mendelssohn un atteggiamento liberale e ne fece le lodi pubbliche, considerandola “come l’annuncio d’una grande riforma”, in grado di congiungere la religione ebraica con la libertà di coscienza, come nessun’altra religione era fino a quel momento riuscita a fare. La strada di un rapporto aperto, libero, dialogico e critico, e quindi tendenzialmente poco “letteralista”, tra l’Ebraismo e la storia della cultura occidentale e del suo razionalismo era aperta e non si sarebbe più richiusa.

A differenza di quanto però è successo con il cristianesimo e l’ebraismo, il "letteralismo" islamico non ha mai scelto di confrontarsi apertamente con l’illuminismo né si è posto in condizione, negli ultimi due secoli, di dialogare proficuamente con i valori civili e politici che gli sono propri. Anzi, la teologia islamica sembra essersi sempre più confermata nella convinzione che quanto è rivelato da Allah dev’essere rispettato alla lettera e non dev’essere interpretato alla luce di un confronto con argomenti o dubbi di tipo razionale. Le ipotesi interpretative basate sull’uso sistematico della ragione non hanno mai smesso di risultare ai suoi occhi fuorvianti, e cioè possibili fonti di peccati gravi, esattamente com’è accaduto per secoli anche nell’ambito della tradizione cristiana.

Sebbene nel Corano si affermi che “non vi è coercizione nella religione”, il letteralismo di quella islamica ne impone ancora oggi molte particolarmente rigide. Questa circostanza non può dipendere dal fatto che il Corano è, come del resto la Bibbia, ricco di contraddizioni difficilmente risolubili, come per esempio quella per cui Dio è nel contempo misericordioso e vendicativo. Tutte le “religioni del libro” hanno dovuto, e in effetti ancora devono, fare i conti con le contraddizioni reali o apparenti contenute nei testi sacri, e per evitare l’impatto con tali contraddizioni il metodo più semplice e radicale è l’ignorarle. La vera differenza è che l’Islam ha avuto, rispetto alle altre religioni monoteiste d’occidente, un’evoluzione bloccata dalla sua vocazione eminentemente letteralista, che è indirettamente all’origine anche delle difficoltà incontrate dalle popolazioni di religione islamica quando hanno cercato d’integrarsi nella civiltà democratica occidentale. Tale vocazione è a sua volta alla base dell’islamismo più violento e aggressivo verso gli altri popoli e ogni altra religione. Quanto infatti evidenzia lo storico rumeno, ma israeliano di adozione, Élie Barnavi, è sotto gli occhi di tutti: il “fondamentalismo rivoluzionario” è oggi, salvo poche eccezioni (nello Sri Lanka o nell’Irlanda del Nord) “alla radice di tutti i conflitti del pianeta in cui la religione gioca un ruolo, dall’Africa al Sud Est asiatico passando per il Vicino e il Medio Oriente”.

Questo predominio del "letteralismo" ebbe inizio probabilmente intorno al XIII secolo, quando la corrente ash’arita cominciò ad avere la meglio su quella mo’tazilita. La corrente ash’arita sosteneva infatti la coesistenza del Corano con Dio, ossia che il Corano fosse increato, mentre quella mo’tazilita partiva dal presupposto che il Corano fosse creato da Dio e non coesistente con lui ab aeterno. Ai mo’tazilitii fu relativamente più vicino Averroé, che prese le difese della filosofia contro le critiche dei teologi ash’ariti, come per esempio Al-Ghazali, e sostenne che anche per la religione islamica era necessario confrontarsi con quell’imperativo di razionalità e di coerenza che ci era stato tramandato da Aristotele, tanto da ritenere che i testi sacri dovessero essere interpretati in modo metaforico ogni volta che il loro significato letterale contraddiceva le conclusioni cui si poteva pervenire per via razionale.

Sebbene Averroè contestasse a entrambe le correnti di avvalersi di argomenti dialettici per deformare il pensiero dei filosofi cui facevano riferimento, finendo poi col disorientare quelle masse incolte cui sarebbe invece convenuto attenersi alla lettera del Corano, egli fu uno strenuo difensore del ruolo della filosofia e considerava chi, temendo che potesse allontanare dalla retta fede, ne proibiva lo studio simile “a colui che impedisce a un assetato di bere dell’acqua fresca, fino a farlo morire, con la scusa che avrebbe potuto rimanere soffocato”.

Purtroppo, l’Islam non intraprese la strada indicata da Averroè, ma quella da lui più distante. Come spiega in maniera molto efficace e sintetica Mircea Eliade, facendo più volte riferimento all’opera di Henry Corbin, che può forse essere considerato il più importante studioso di religione islamica dell’ultimo secolo, “secondo il Corano, alla vita religiosa è indispensabile la fede nel ghayb (l’invisibile, il soprasensibile, il mistero) – e il ghayb trascende la dimostrazione razionale”. Come fa osservare lo stesso Corbin, secondo la dottrina di al-Ash’arì, sebbene non si debba disdegnare il valore delle dimostrazioni razionali, come invece fanno i “letteralisti”, non si deve tuttavia arrivare al punto di considerare “la ragione come un criterio assoluto davanti alla fede e ai dati religiosi fondamentali”. Secondo lui, “attribuendo un valore assoluto alla ragione, invece di arrivare a rafforzare la religione, come sostengono i mo’taziliti, si arriva a sopprimerla, semplicemente sostituendo la ragione alla fede. A qual fine aver fede in Dio e nelle sue rivelazioni, se la mia ragione è superiore ai dati stessi della religione?” In realtà, il Corano ribadisce a più riprese che la fede si fonda sul ghayb, che costituisce il principio essenziale della vita religiosa e che sta al di là di ogni principio razionale, anche di quello di non contraddizione. Senza rinunciare all’applicazione sistematica di tale principio la fede musulmana risulta impossibile, perché prendere la ragione come criterio assoluto nel campo del dogma è “incompatibile con il principio della fede nel ghayb”.

Corbin spiega anche che la tesi centrale di Abu’l-Hasan al-Ash’ari è proprio quella per cui bisogna avere fede “senza domandare come”. Da questa convinzione cruciale derivano le differenze fondamentali sia rispetto ai mo’taziliti che rispetto ai “letteralisti”. Se i primi considerano il Corano come parola divina creata, i secondi oppongono un categorico rifiuto a questa concezione. Per i primi, “non solo l’uomo è libero e responsabile, ma possiede anche la qodra, cioè la potenza creatrice, la facoltà di creare le proprie opere”. In contrapposizione a questa tesi, “per sfuggire al rischio di porre un’altra potenza creatrice a fianco di quella divina, Ash’ari, pur lasciando all’uomo una libertà che lo rende responsabile dei suoi atti, attribuisce all’uomo non la qodra, la creazione delle sue opere, bensì il kash, la loro acquisizione”.

Nel considerare i rapporti di forza tra queste diverse scuole teologiche, bisogna tener presente però che “per molti secoli la scuola ash’arita ha dominato quasi totalmente l’Islam sunnita; in certi periodi e in certe regioni, l’ash’arismo è stato addirittura identificato con il sunnismo”. In ogni caso, sebbene la scuola mu’tazinita abbia saputo in passato fornire una valida alternativa, anch’essa si avvale di una distinzione tra tipologie di peccati che non è priva di conseguenze rilevanti. Ci sono infatti i peccati più veniali, “che non comportano l’esclusione della cerchia dei credenti, purché il peccatore non vi ricada”; e quelli più gravi, che si dividono a loro volta in due specie: “kofr (l’infedeltà), e gli altri. Questi ultimi, secondo i mo’taziliti, escludono il musulmano dalla comunità, senza tuttavia che egli debba essere considerato un kafir (infedele in senso assoluto)”.

Anche se in tutto l’Islam non è mai venuta meno la battaglia contro la religione “letteralista” della “Legge” – battaglia che è stata condotta, oltre che dai mo’taziliti, anche dagli sciiti minoritari, dai falasifa e dai sufi, in nome di una versione più spirituale dell’Islam – in ogni caso, anche nella prospettiva mo’tazilita, il peccato di gran lunga più grave, il peccato che non può essere emendato, è quello dell’infedeltà (kafir). E poiché non c’è modo più oggettivo di accertare l’infedeltà che valutarla rispetto alla “lettera della Legge”, questa continua comunque a costituire un riferimento centrale, specialmente per le tipologie di fede spiritualmente meno elevate, che hanno cioè bisogno di segni tangibili e che riguardano la massa dei fedeli. Se l’islam spirituale ne ha avuto infatti sempre meno bisogno, quello «letteralista» non ha mai cessato di farvi riferimento.

Alla luce di questo scenario si può ben comprendere che, quando oggi operiamo la distinzione tra un Islam moderato e uno radicale, siamo probabilmente vittime di un’illusione provocata da diversi comportamenti rispetto alla “lettera della Legge”, ma poco cambia rispetto al peccato che non può essere redento, quello dell’infedeltà al libro, sempre evidente quando ci si schiera dalla parte degli infedeli. Per questo, nel caso di uno scontro con altre religioni o altri sistemi di valori, di un impatto violento con i miscredenti, l’appartenenza alla religione che fa riferimento al Corano prevale sua qualsiasi altra ragione.

Ma anche l’altra differenza cui si è fatto cenno tra la concezione ash’arita della religione islamica e la tesi mo’tazilita ha una conseguenza rilevante, e consiste nel fatto che secondo quest’ultima il Corano sarebbe creato, e cioè ispirato da Dio in un certo momento in una lingua umana: questa circostanza consente infatti a sua volta d’interpretarlo come un evento storico, e cioè di storicizzarlo e quindi, almeno virtualmente, di renderlo compatibile con la storia dei costumi e delle convinzioni etiche e scientifiche dell’epoca in corso, o almeno sarebbe possibile tentare una sorta di mediazione culturale tra le sue interpretazioni letterali e quelle compatibili con i tempi. Potrebbe cioè ripetersi in quest’ottica, anche per la religione islamica, ciò che è già avvenuto per quella cristiana. Anche la sharia cesserebbe pertanto di essere qualcosa di eterno, d’indifferente allo scorrere del tempo, e potrebbe dunque essere liberata dalla sua rigidità, adattandosi progressivamente a un contesto storico e culturale in perpetuo mutamento.

Viceversa, nella prospettiva che in modo più generico potremmo definire “letteralista” la ragione umana è vista più come un nemico che come un alleato e per questo bisogna imparare a rispettare la lettera del libro sacro “senza chiedersi il come”, o “senza conoscere il perché” di ciò che vi si afferma. Questo è il modo in cui si possono infatti risolvere problemi che la fede islamica può sollevare senza correre il rischio di riscontrare delle contraddizioni tra diversi versetti coranici. L’espressione bi-lā kayfa indica proprio la convinzione che questi debbano essere presi alla lettera, “senza chiedersi perché”, ed è usata fin dal decimo secolo dopo Cristo per marcare la differenza con la scuola mo’tazilita, secondo la quale il confronto tra fede e ragione era invece opportuno e appropriato.

In realtà, quando si evita di affrontare per via razionale i paradossi e le contraddizioni che qualsiasi fede ci pone di fronte, questa si riduce a una superstizione letteralista. Un simile confronto con la ragione implica infatti non solo che ci si debba interrogare sul significato dei testi sacri di riferimento, ma anche sulle conseguenze di ogni loro interpretazione sulla propria vita e più in generale sui riflessi etici della propria fede. Nel cercare d’interpretare in modo plausibile ogni passo per comprenderne le implicazioni è allora inevitabile che si debba abbandonare la “lettera” e avvalersi di metafore. Senza ricorrere a metafore, paragoni o similitudini è impossibile traslare l’ipotetico significato di un passo in altri contesti e senza l’esame delle conseguenze di ciascuna ipotesi interpretativa è impossibile capire non solo il senso di ciò che si legge o si studia, ma anche educarsi ad avvertire la risonanza emotiva di quanto si è compreso o si ritiene di aver compreso, rischiando così di abituarsi a una sostanziale mancanza di empatia verso tutto ciò che non rispetta la lettera, abitudine da cui possono derivare le più deleterie forme d’intolleranza, di odio e di fanatismo.

(*) Fine prima parte

Aggiornato il 25 marzo 2025 alle ore 17:24