Come avrebbero immaginato Thomas Mann o Robert Musil la storia riguardante le traversie di un uomo eccessivamente alto, se non inserendolo in un contesto storico ampio, all’interno di fatti e motivi simbolici occorsi a generazioni che, nel susseguirsi di vicende personali, recano inopinatamente lo stigma di una differenza e di un portato genetici e sociali? Da par suo, Franz Kafka ne avrebbe descritto il labirintico percorso mentale, troppo sfinitamente lungo nel processo per poter risolvere la compiutezza d’una logica coscienziale punitiva, da emendare, soffermandosi nei vicoli ciechi del paradosso. Virginia Woolf, al contrario, si sarebbe espressa accompagnando fin sulla riva del mare l’uomo, per offrirlo a una silenziosa, pervicace critica rammemorazione di quel che è stata la sua vita. In modo del tutto dissimile Fëdor Dostoevskij avrebbe scelto di porre il soggetto di fronte a un pressante dilemma morale, mentre Italo Calvino lo avrebbe invitato a compiere azioni audaci e temerarie in alto, sempre più in alto. Infine, Marcel Proust chissà quali pagine esaltanti ricche di una lingua avvincente, di un eloquio forbito e arditissimo avrebbe immaginato per renderlo metafora di una condizione ancor più impegnativa, come quella di andare a incarnare la figura e la difficile veste del protagonista della storia dell’uomo del suo tempo.

Una soluzione originale che dialoga con i canovacci appena esposti, la offre, proponendola al lettore, Giovanni DAlessandro che, dopo dodici anni di silenzio, grazie alla pubblicazione di un romanzo di pura maestria letteraria, Lo sperduto (Città Nuova 2024), torna a riprendersi il posto che gli compete, quello del più interessante scrittore abruzzese. Un’opera che, si badi bene, pur non pretendendo di trattare i vertiginosi temi e di assurgere ai fasti di Se un Dio pietoso o dei Fuochi dei kelt, non tradisce i canoni di una letteratura “alta”. Nell’osservazione minuta e perfino indolente della vita quotidiana altoborghese di un ragazzo molto alto e attraente, di una virile bellezza, ma proprio da tale conformazione fisica reso ingombrante e goffo, D’Alessandro sfoggia tutto il suo talento naturale che lo porta a generare una scrittura dal passo lieve e omodromo, facendo granire le pagine, esposte con pudore e senza mai alzare il tono. Si potrebbe definire una “scrittura a bassa voce”, confidenziale, che compone con chiarezza le linee delicate di un sottile ricamo, di un merletto prezioso di suggestioni, di riflessioni, di domande che i protagonisti si rivolgono e che vengono indirettamente poste in seno al lettore. Il dramma interiore di una persona che svela la sua inadeguatezza al mondo fonda il disegno di una naturalezza romanzesca che seduce, colpisce, commuove senza strepiti o eccessi, svelando con riservata pacatezza quel che pertiene strettamente a ogni individuo e che nessuno riesce a svelare, e cioè il segreto intimo di se stessi. Il romanzo è ambientato nell’attuale secolo, in un’Italia dove insistono ancora caste inattaccabili e inutili come i notai.

I protagonisti Marcello e Maria Vittoria, lottano per la loro felicità, costruendola faticosamente giorno dopo giorno, confessandosi reciprocamente dubbi e timori, affrontando fin da giovanissimi le responsabilità di una figlia messa al mondo quando ancora i due frequentano la scuola dell’obbligo. Ce la faranno? L’indulgenza, la comprensione sono richieste in questi casi, e D’Alessandro conduce per mano il lettore a scoprire due anime belle, l’una insicura, l’altra più forte e decisa, illuminandole di grazia e di poesia. Marcello si sente troppo ingombrante, troppo alto, c’è uno iato incolmabile tra lui e l’esistenza, che genera in lui, nonostante l’affetto di Mavi, una sofferenza che lo renderà preda di una indicibile sperdutezza”. Per quale ragione la complicità, la condivisa lealtà, la reciproca fedeltà, lo scoprirsi l’uno all’altro non spengono il disagio di Marcello? Alla figlia se ne aggiunge un altro, la famiglia diviene un luogo in cui i membri si conoscono tra di loro e si giudicano. “In verità a letto funzionava benissimo tra loro. Stavano insieme dai diciotto anni ed erano adulti adesso, erano genitori; avevano dimostrato a tutti che il loro amore era stato forte fin da ragazzini, pur essendo stato un po’… forzato al matrimonio da una inattesa gravidanza”. Le schermaglie che Mavi fomenta cercano di svelare a Marcello la sua interiorità, e di aiutarlo a interrogarsi – serviranno, perché Mavi improvvisamente si ammala.

L’amore coniugale e quello familiare, oggetto del nuovo romanzo di D’Alessandro, rappresentano uno spunto per disegnare la condizione psicologica di uno smarrimento probabilmente simbolico, espressione di un ben più ampio, collettivo malessere. Tale condizione viene impersonata dal protagonista, lo “sperduto” che avverte un’incommensurabilità tra il suo corpo e ciò che lo circonda: la vita, quell’abisso celeste che mai potrà essere misurato con precisione, mai delimitato nei confini, quale inconcepibile divaricazione tra uomo e realtà, imprendibile disformità a cui nessuno slancio può adeguarsi, che rende finito l’infinito e infinito il finito e l’uomo nient’altro che una banderuola al vento. Si dispiega, nel libro, con forza, la presenza della poesia, perché la poesia cerca di rendere meno improbabile lo sconvolgimento che crea la vita. La poesia coincide, in D’Alessandro, con la scrittura stessa del romanzo, laddove un’enorme risonanza e un immenso silenzio si sprigionano, e un’ombra infinita si proietta dietro ogni parola. Se l’intervallo numerico tra 0 e 1 contiene infiniti numeri, tra le parole del romanzo di D’Alessandro nondimeno trascorrono pause e silenzi sconfinati. La verità che cerca il protagonista, quella di se stesso, è forse contenuta nell’atto stesso di ricercarla? La propria verità, la verità della vita, Marcello non la dice, e lo scrittore la lascia immaginare al lettore. È proprio la distanza tra scrittore e lettore che risulta incommensurabile, infinita, perciò assume i confini della spiritualità, di un non detto che ha a che fare con la sensibilità e con il silenzio. L’uomo deve rassegnarsi alla “sperdutezza”, alla mancanza di un’identità consapevole?

La verità non sarà mai tale, sarà sempre incompiuta senza l’amore. “Con te ho imparato a chiamare felici gli attimi in cui il dolore non si sente”. Un romanzo delicato, soffuso, impregnato di tenerezza. I personaggi inizialmente sbozzati prendono forma sotto gli occhi del lettore, crescono, maturano con lui. Ciò che interessa però D’Alessandro non è la storia in sé, ma “come” la si racconta. Questo, il compito del grande scrittore: non inventare una storia, ma saperla far diventare incantevole, saperla narrare. Questo saper narrare, diverso per ciascuno scrittore, è lo “stile”, il modo con cui si indossa un abito, si cammina, si mangia. Chi più ha stile, più è aristocratico. La letteratura è aristocrazia, è il luogo in cui lo scrittore esercita il suo modo di narrare e di incantare, di attirare a sé il lettore mediante l’uso della sintassi, della grammatica, della retorica, del respiro della narrazione, dei tempi dellaffabulazione. Affabulare è isolare l’altro dal mondo per incantarlo, cioè compiere un atto di magia, rendendo le parole come stelle che brillano, come onde che si sollevano su un mare luccicante e che fanno vibrare l’animo.

Lo scrittore parla da uomo a uomo del proprio essere al mondo e all’altro indica una via, una via della conoscenza oppure una viuzza stretta e oscura in cui il lettore non è mai stato. D’Alessandro è un aristocratico che appartiene a una piccola congrega di aristocratici che lo hanno preceduto: gli altri scrittori, in particolare quelli della seconda metà del Novecento, da Michele Prisco a Mario Pomilio. Lo sperduto è un romanzo dedicato a tutti i romanzi che lo hanno anticipato, essendo la letteratura un dialogo che essa intesse con se stessa (per il tramite degli scrittori) sul mistero –sacro e profano – della vita dell’uomo. L’arte – qualsiasi forma d’arte – non è generata dal proprio tempo, bensì dal passato, viene da lontano per redigere un messaggio per il futuro, e per l’assenza. La letteratura è anche e soprattutto una forma di sperdutezza, a cui D’Alessandro attinge disagio perfino fisico, temporale e intimamente animato. Per D’Alessandro, l’evocazione di una Presenza a cui si tende, e che rende estranei a se stessi, poiché non chiarisce il mistero di cui ogni scrittore – in quanto individuo – è “impressa materia”.

(*) Lo sperduto di Giovanni D’Alessandro, Città Nuova 2024‎, 196 pagine, 16,90 euro

Aggiornato il 20 marzo 2025 alle ore 11:29