“L’orto americano”: un gotico padano

Dove abitava in quel 1945 il “Mostro di Firenze” ante litteram, che uccideva le sue donne e poi praticava escissioni pubiche sui loro corpi? Secondo la fantasia del regista Pupi Avati, la sua casa in vetro (o in vitro) si colloca nel sottosuolo de L’orto americano (film in bianco e nero, in uscita nelle sale italiane il 6 marzo) che sta fisicamente in Iowa, ma le cui radici e origini criminali scendono nelle intimità della terra umida dei poveri campi della Romagna devastati dalla guerra. Lì dove si aggirano corvi in motocicletta che rivendono ai parenti inglesi e americani le spoglie di soldati e ausiliarie morti in Italia. Ma, al centro di tutto, motore di una meccanica complessa, forse volutamente disarticolata nella parte strutturale della sceneggiatura (che si presenta come un millepiedi, per cui bisogna indovinare dove sta l’unica scarpa indossata), c’è l’amore, quello senza misura, né capo, né coda.

E il suo vettore non è la freccia dell’arco di Cupido, bensì un nastro di perenne di follia che inviluppa con le sue linee caotiche e contorte il fermo immagine del volto di una creatura bellissima, e in un solo istante amatissima, infermiera ausiliaria dell’Us Army, incontrata una sola volta dal protagonista in un negozio di barbiere alla fine della Seconda guerra mondiale. Così inizia la storia che si vorrebbe horror e gotica ma che, in realtà, al di là delle stesse definizioni del regista autore, ha lo stesso sapore dolceamaro dell’opera di Paul Valéry, quando il grande artista francese asserisce che “la scrittura viene fuori dalle sue cancellature”. Così, le varie verità (la maestria di Avati fa sì che, in fondo, il vero sia un po’ come un prêt-à-porter, per cui ciascuno se lo fa a sua misura e godimento), sono sempre a cavalcioni di un cavallo scosso, in corsa tra follia e realtà, secondo un moto ergodico in cui soltanto la sequenza finale farà chiarezza.

In questo corpo filmico random con mille sfumature di grigio, i cadaveri viventi e le povere membra anatomico-riproduttive delle donne escisse conservate in formalina, sono parti del tutto trascurabili di un percorso artistico maturo di grande interesse. Perché come in Valéry, anche qui sono le cancellature ad aprire le robuste tende oscure della verità che si cela dietro la follia. I versi in formalina sono quelli sapienti delle biblioteche antiche e degli autori greci del V secolo avanti Cristo, afferrati per i radi capelli di quelle teste calve da uno strano abate tuttologo americano appassionato grecista, che introduce il giovane protagonista, aspirante scrittore (un bravo Filippo Scotti), ai misteri dell’efferato delitto in versi. Tutto è pathos e guignol, al tempo stesso, come le sequenze aberranti del prigioniero e della sua gabbia gattaia al processo che lo vede imputato come serial killer di donne che erano state le sue amanti, trovate orrendamente mutilate. Perché, si dice, che solo il compimento e la visione di un simile strazio renda potente l’impotente, così come sapientemente descritto in testi autorevoli dell’accademia medica e psichiatrica. Ma c’è molto più di questo ne L’orto americano, ricolmo della pietas di chi, pur giovane e forte, non prova repulsione o ribrezzo nell’accudimento di un corpo femminile anziano e malato.

Per di più, da bravo scrittore, il protagonista si lascia immergere con curiosità nella fonte di dolore e disperazione di una madre anziana, resa folle dalla perdita di quella sua figlia minore Barbara, smarrita e mai più ritrovata nelle pieghe della guerra nella lontana Italia. Proprio lei, la giovane in fotografia, che assomiglia come una goccia d’acqua al fulmine d’amore in divisa, che ha scolpito per sempre l’immagine definitiva della propria “donna della vita” (ce ne è sempre una sola) nella mente e nel corpo vivo dello scrittore. Il racconto è una corsa affannosa tra finti e veri pazzi, tra fratellanze alla Caino, ricoveri in manicomio dei soliti geni incompresi, e danze attorno alla giustizia, compresa la pena di morte tramite fucilazione. E sono le lettere e gli appunti dei vari personaggi a funzionare al contempo da bussola narrativa e da strumento principe della confusione, facendo sì che tutto non sia come sembra. Lampade a olio che si consumano lungo notti insonni popolati da incubi, in cui il reale imbastisce la sua trama con l’irreale, scambiando tra di loro i volti degli assassini seriali, mentre si accendono le vere amicizie tra gli spalti bianchi delle camerate e dei poveri refettori di un ospedale dei pazzi. Con medici che operano come stregoni, spargendo coma insulinici e con successiva somministrazione di elettroshock, per necrotizzare quelle aree cerebrali della follia di cui, però, nessuno possiede le mappe. Esattamente come accade nel film: dov’è, dunque, la mappa del tesoro? Risposta di Avati: in ciò che appare morto ma non lo è “per sempre” nel cuore di chi ama perdutamente.

Voto: 8,5

Aggiornato il 28 febbraio 2025 alle ore 13:19