
Il naufragio della scuola
L’istruzione, in apparenza, non è mai stata così accessibile. Studiare è un diritto garantito, le università si moltiplicano, l’informazione è ovunque. Eppure, mai come oggi, il sapere sembra aver perso la sua importanza. Gli studenti vivono la scuola come un passaggio obbligato, un mezzo per ottenere un titolo utile a entrare nel mondo del lavoro. La domanda da porsi è allora radicale: cosa stiamo davvero insegnando?
Per secoli, conoscere significava interrogarsi sulla realtà, capire il senso delle cose, cercare la verità. La scuola e l’università erano luoghi in cui si formavano persone capaci di pensare in modo autonomo. Ma oggi tutto è cambiato. Il sapere non è più considerato un fine in sé, qualcosa di prezioso per la crescita dell’individuo. È diventato uno strumento, un mezzo per ottenere competenze, per essere più efficienti, per rispondere alle richieste della famiglia prima e del mercato poi. In poche parole, la scuola non insegna più a pensare, ma ad eseguire. Questo capovolgimento non è un caso. È il risultato di un cambiamento molto più profondo che riguarda l’intera società. Tutto ciò che facciamo è condizionato dallo sviluppo di strumenti sempre più avanzati: la scienza, l’economia, il lavoro, persino le nostre relazioni dipendono da dispositivi tecnologici che si perfezionano a un ritmo inarrestabile. In questo scenario, l’istruzione viene lentamente ma costantemente trasformata per servire un unico scopo: rendere gli individui funzionali al sistema tecnico.
Mark Twain scrisse che “non ho mai lasciato che la scuola interferisse con la mia istruzione”. Questa battuta paradossale contiene un fondo di verità che oggi appare più attuale che mai. Le discipline umanistiche, la filosofia, il sapere critico sono progressivamente messe da parte perché non producono risultati immediatamente utili. O, peggio, vengono valorizzate come strumenti funzionali all’utilità. Un esempio su tutti: lo studio del latino aiuta a “ragionare”, così poi si può più facilmente laurearsi in ingegneria, medicina, economia e via discorrendo. Al loro posto, si impongono materie orientate all’efficienza, alla praticità, alla produttività. La scuola non è più un luogo di crescita intellettuale, ma una macchina che forma lavoratori specializzati, persone capaci di adattarsi alle richieste del sistema senza metterle in discussione.
Ma questo modello ha una conseguenza enorme. Se il sapere non ha più valore in sé, se esiste solo in funzione di un obiettivo pratico, allora significa che è la tecnica stessa a stabilire cosa è importante e cosa no. E la tecnica ha una logica ben precisa: tutto deve essere più rapido, più efficiente, più performante. La scuola diventa così parte di un ingranaggio che non ha più bisogno di uomini che riflettono, ma solo di “ingranaggi” che funzionano. Dove ci porta questa trasformazione? A un mondo in cui l’istruzione non sarà più nemmeno necessaria nel senso tradizionale. Se il sapere è solo uno strumento e la tecnica si sviluppa sempre più autonomamente, arriverà il momento in cui nemmeno l’uomo sarà più indispensabile, i docenti prima dei discenti. La scuola oggi è già diventata un addestramento all’efficienza. E domani potrebbe non servire più nemmeno a quello. Se, infatti, la scuola si limita a trasmettere nozioni da applicare senza problematizzarle, non forma menti pensanti, ma riproduttori di schemi preconfezionati. Martin Heidegger avvertiva che la tecnica non è uno strumento neutrale, ma un dispositivo che modifica il nostro stesso modo di pensare. In un’istruzione dominata dalla logica dell’efficienza, che spazio resta per il pensiero critico, per la capacità di fermarsi e interrogarsi sul senso di ciò che si apprende?
Se l’istruzione ha ormai perso la propria indipendenza, è possibile pensare una via d’uscita? La risposta non si trova nelle riforme amministrative né nelle modifiche strutturali dei programmi di studio. Il problema non è nel metodo, ma nella concezione stessa del sapere che la scuola trasmette. Occorre restituire alla conoscenza il suo statuto originario, sottrarla alla logica dell’utile, ripensarla al di fuori delle esigenze produttive. Fino a quando la scuola continuerà a esistere unicamente in funzione di ciò che viene dopo – il mercato, la società, la carriera – essa rimarrà un passaggio obbligato privo di significato, e la sua crisi sarà destinata ad aggravarsi.
Aggiornato il 20 febbraio 2025 alle ore 16:01