Gianni Amelio oggi festeggia il suo 80° compleanno. Il grande cineasta, premiato nel 1998 con il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia per il film Così ridevano, è un regista, uno sceneggiatore, un critico, uno studioso, un uomo di cinema “totale”. Colleziona manifesti antichi, rivede il cinema del passato. Negli anni Ottanta insegna al Centro sperimentale di cinematografia. Con un entusiasmo e una passione cinefila ribadita poi, per quattro anni dal 2008 al 2012, come direttore artistico del Torino Film Festival affiancando la critica Emanuela Martini. Un indagatore della psiche che ogni volta mette il suo inconfondibile stile a servizio del racconto sociale. Gianni Amelio nasce a Magisano, un paesino con poche centinaia di abitanti sulle colline vicino a Catanzaro e conserva i tratti del calabrese: un po’montanaro nell’animo, fedele agli amici, spietato nei giudizi per onestà intellettuale. Dicono che l’abbandono forzato del padre che lascia la famiglia quando il bambino è nato da poco per assistere suo padre emigrato in Argentina abbia segnato l’infanzia di Gianni, cresciuto tra le “donne sole” di casa (madre e nonna).
Si rivela ottimo studente al liceo classico di Catanzaro e poi laureato in filosofia all’università di Messina. È qui che scopre la sua passione per il cinema, nei cineclub dove anima iniziative e rassegne fino a entrare nella redazione della rivista Giovane critica. A vent’anni fa il grande balzo verso Cinecittà e impara il mestiere come aiuto regista o operatore di macchina. Con l’occhio incollato all’obiettivo e una passione per il neorealismo, si cimenta presto anche nella regia documentaria. I suoi maestri sono Gianni Puccini, Liliana Cavani, Giulio Questi, Ugo Gregoretti. In quel periodo scopre anche la televisione dove debutta nel 1970 con il primo film: La fine del gioco. Sono quelli gli anni in cui la Rai investe per la prima volta nel cinema. Infatti per i “programmi sperimentali” della tivù di Stato Amelio dirigerà nel 1973 La città del sole, un ritratto quasi caravaggesco (nelle luci e nei tagli d’inquadratura) del monaco calabrese Tommaso Campanella raccontato nel suo pensiero ribelle e solitario evitando la struttura tradizionale della biografia.
È questo il film che lo rivela grazie anche ai riconoscimenti in Francia. Tre anni dopo Bernardo Bertolucci lo invita sul set di Novecento e ne nasce uno dei più riusciti modelli di making of del cinema italiano, Bertolucci secondo il cinema. Seguirà La morte al lavoro, un giallo psicanalitico che si mette in luce al Festival di Locarno e gli permette di dirigere – un anno dopo – Il piccolo Archimede, il suo film per la tivù più famoso con cui Laura Betti vince il premio per la migliore attrice al Festival di San Sebastian. Ormai per Amelio è tempo di tentare la via del cinema-cinema ed eccolo debuttare una seconda volta, nel 1982, con Colpire al cuore, realizzato con pochissimi mezzi grazie all’intuizione del produttore Enzo Porcelli: da un’idea del regista gli affida un copione scritto da Vincenzo Cerami sulle luci e ombre del terrorismo in Italia. Il tema è allora di bruciante attualità e l’accoglienza alla Mostra di Venezia vede divisi i partiti della critica nonostante la storia non rispecchi uno specifico caso di cronaca. Oggi Colpire al cuore resta però una delle più attente e lucide analisi sul periodo e sulle motivazioni di quella lacerante pagina di storia nazionale.
Ormai maturo nelle scelte e nelle ambizioni, sempre affiancato dalla Rai, Gianni Amelio guarda adesso più indietro nel passato italiano con I ragazzi di Via Panisperna (1987) realizzato in doppia versione per grande e piccolo schermo e dedicato alla generazione dei grandi fisici italiani, da Enrico Fermi a Edoardo Amaldi a Ettore Majorana. Subito dopo è la volta di Porte aperte (dal romanzo di Leonardo Sciascia), girato nel 1989 con Gian Maria Volonté, Ennio Fantastichini e Renato Carpentieri, film candidato italiano all’Oscar. Per l’autore è la consacrazione internazionale che spinge il successivo Il ladro di bambini nel concorso del Festival di Cannes dove vince nel 1992 il Gran Premio della Giuria e ottiene poi un grande successo di pubblico. Il film segna l’inizio del prezioso sodalizio con Enrico Lo Verso. Il regista sceglie l’attore siciliano anche per i lungometraggi successivi. Lamerica (1994) porta in primo piano il dramma dell’emigrazione dall’Albania all’Italia. Applaudito alla Mostra di Venezia, ha lo spessore del kolossal per impegno produttivo. Curiosamente tutto questo porta a un periodo di ripensamento e di silenzio.
Infatti, passano quattro anni per ritrovare Amelio in concorso a Venezia: Così ridevano. Ambientato a Torino, a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, sempre con Lo Verso (e Fabrizio Gifuni), è forse il suo film più personale e difficile che però vince, quasi a sorpresa, il Leone d’oro. La filmografia successiva di Amelio annovera tentativi sempre più personali e diversi per approccio e stile: Le chiavi di casa (2004) con Kim Rossi Stuart, dal romanzo di Giuseppe Pontiggia sulla disabilità; La stella che non c’è (2006) con Sergio Castellitto, accompagna il protagonista in Cina; Il primo uomo (2011) arriva in Algeria sulle tracce di Albert Camus; L’intrepido (2013) porta Antonio Albanese in Albania ritornando al tema del rapporto tra padri e figli così come il successivo La tenerezza (2017) per cui Renato Carpentieri vince il David di Donatello nel 2018. Infine, c’è spazio per Hammamet (2020) con Piefrancesco Favino nei panni di un Bettino Craxi stanco e deluso alle soglie della morte. Negli ultimi anni Amelio continua a indagare la storia italiana attraverso personaggi contraddittori e solitari in opere discusse e amate come Il signore delle formiche (2022) o il recente Campo di battaglia (2024), ambientato nelle trincee della Grande guerra.
Aggiornato il 20 gennaio 2025 alle ore 18:19