Hirokazu Kore’eda torna alle latitudini più intime e alle ambientazioni che hanno caratterizzato il suo cinema. Con L’innocenza, il maestro giapponese racconta uno scontro fondato sull’incomunicabilità che regna tra l’istituzione scolastica e la famiglia. Emergono prospettive diverse, verità inconciliabili, emozioni segrete, mostrate attraverso una sorprendente narrazione multilineare che consente di scoprire una verità alternativa. Il film narra le vicende dell’undicenne Minato (un magnifico Sōya Kurokawa), un ragazzino molto riservato, che vive con Saori (una dolente Sakura Andō), la madre vedova, che lavora in una stireria. Nonostante abbia perso il padre molti anni prima, Minato continua a interrogare la madre sulla scomparsa. Intanto, la donna nota che il figlio mostra un atteggiamento più chiuso del solito. Minato torna da scuola sempre più affranto. Una sera, la madre scopre che si è ferito a un orecchio. Così, incalza il figlio, decisa a scoprire la verità. Minato le confessa che a ingiuriarlo e a colpirlo è stato il maestro Hori (un convincente Eita Nagayama). Il giorno dopo, infuriata, la donna si precipita a scuola sconvolta dal racconto del ragazzino. Viene ricevuta dalla preside dell’istituto che, insieme all’insegnante, le porge le scuse più deferenti. Ma la donna non le accetta. Vuole capire le ragioni di quelle azioni insopportabili. Intanto, i maschi della classe deridono e vilipendono Yori (un intenso Hinata Hiiragi), un compagno di Minato, preso di mira perché considerato effemminato. Per questi motivi, in classe, Minato non vuole parlare a Yori. In realtà, tra i due nasce una tenera amicizia.
Il quindicesimo film del 62enne Hirokazu Kore’eda è stato presentato, in anteprima, il 17 maggio 2023 in concorso al 76º Festival di Cannes, dove ha vinto il Premio per la Miglior sceneggiatura (firmata dal regista e da Yūji Sakamoto). In Italia è stato distribuito nel 2024 da Bim. Il lungometraggio mostra il confine tra la realtà e la menzogna. Il titolo originale, Kaibutsu, vuol dire “mostro”, e infatti, il titolo internazionale del film è Monster. Indizio di inquietudine, orrore, buio. Eppure, la famiglia, nel cinema di Kore’eda è sinonimo di gioia. Apparente. Disperata, addirittura. Ma con una costante: un’ottimistica e quasi incosciente ricerca della felicità. Ne L’innocenza la verità viene raccontata da punti di vista opposti. Nella narrazione si compie una cesura profonda utile a svelare i momenti paralleli che sposano tre differenti prospettive: quella di Saori, del maestro Hori e di Minato. Ciascuno dei personaggi vive una propria, drammatica, condizione esistenziale. L’innocenza sublima in maniera poetica il dramma. È una decisione gioiosa e insieme tragica. Che può essere, a torto, tacciata di lirismo. In realtà, vige un rispetto nei confronti dei personaggi e della materia narrativa. Non a caso, l’incipit del film è letteralmente incendiario. Un palazzo sta bruciando nella notte di Suwa, una piccola cittadina della provincia di Nagano. Saori e Minato si affacciano al balcone del loro appartamento. E, madre e figlio, sporgendosi involontariamente, rischiano, a turno, di cadere. La simbologia dell’apertura del film è un atto narrativamente fondativo. I due personaggi sono in pericolo. Le fiamme che avvolgono l’edificio sono sintomatiche dei loro tumultuosi sentimenti. E le loro parole vengono vicendevolmente dissimulate, umiliate, manipolate. I luoghi, invece, sono teatro delle dinamiche relazionali. Gli appartamenti, il tunnel, il vagone del treno, la scuola.
Ecco, l’istituto governato dall’anaffettiva preside Fushimi (un’altera Yûko Tanaka), traumatizzata dalla recente morte della piccola nipote, è uno spazio innervato da riti formali sordi: scuse, inchini, convenzioni. L’obiettivo è la salvaguardia dell’istituzione scolastica. Sopra ogni cosa. Kore’eda rappresenta un duello atavico: quello tra la famiglia e la scuola, due istituzioni, due distinte fazioni, in perenne conflitto reciproco. Che paradossalmente, da prospettive opposte, giungono al medesimo obiettivo: la demonizzazione di un obbligatorio capro espiatorio. Dalla sceneggiatura al pedinamento dei personaggi, tutto contribuisce alla riuscita di un’opera ispirata. Un intricato capolavoro complesso che riesce splendidamente a rappresentare diversi temi con assoluta maestria. A questo proposito, suona di un’efficace eleganza il pianoforte che sottolinea i momenti decisivi senza ingerenze narrative. La colonna sonora, perfettamente intonata con il passo narrativo del film, è l’ultima struggente musica di Ryūichi Sakamoto, straordinario compositore scomparso di recente. Il regista racconta il fascino disperato della solitudine, l’impossibilità dei legami, il confronto primordiale con la sessualità, lo sguardo sincero nei confronti dell’infanzia e della preadolescenza.
Aggiornato il 06 dicembre 2024 alle ore 20:47