Nella giornata di ieri si è celebrato il centesimo anniversario di un fiore all’occhiello della comunità ebraica di Roma: la scuola elementare “Vittorio Polacco”. È forse l’istituto primario che meglio incarna il precetto rabbinico del Tikkun Olam, l’idea di “perfezionare il mondo” riparandolo dalle macerie. La storia del prestigioso polo educativo dimostra come persino in seguito alle tragedie del Novecento, quando il regime fascista considerava la cultura giudaica alla stregua di un “corpo estraneo” da eliminare, sia possibile costruire un futuro basato sulla speranza. E tutto ciò è merito della collaborazione virtuosa tra i maestri, il personale didattico e le famiglie che risiedono nella Capitale. Dopo un secolo di attività ininterrotta, il “Vittorio Polacco” si conferma un punto di riferimento imprescindibile per i bambini che desiderano apprendere l’insegnamento toraico coltivando la loro identità.
Non si può capire fino in fondo il rilievo di questa scuola se non si conosce l’uomo da cui prende il nome. Si tratta del giurista e senatore del Regno d’Italia Vittorio Polacco, rettore dell’Università di Padova dal 1905 al 1910. L’entrata in vigore della Riforma Gentile, che prevedeva l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica e lo studio delle discipline con uno sguardo ossequioso alla dottrina della Chiesa, pose in discussione il principio della laicità del sistema scolastico e, con esso, il rispetto delle minoranze religiose presenti sul suolo italiano – prime fra tutte le comunità di fede ebraica che, parafrasando Giovanni Paolo II, convivevano pacificamente insieme ai “fratelli minori” cristiani. Vittorio Polacco tenne un intervento parlamentare piuttosto polemico nel quale lamentava l’assenza di una scuola dove i giovani ebrei potessero formarsi. Nacque così l’intuizione di dare vita a un istituto riservato ai fanciulli del ghetto, situato presso il rione di Campo Marzio. La sua proposta rappresentò un tentativo (riuscito magnificamente) di resistere all’involuzione autocratica che stava prendendo piede con l’avanzata della dittatura mussoliniana.
Ma facciamo un ulteriore passo indietro. Già negli anni Dieci del XX secolo il repubblicano Ernesto Nathan, l’unico sindaco della Capitale di origini ebraiche, affermò: “A Roma nessuna chiesa senza una scuola”. Quella che poteva sembrare in apparenza una frase dettata dall’anticlericalismo di stampo massonico, tradiva un avvertimento alla sua comunità. Nathan riteneva che fosse indispensabile dotarsi di una scuola autonoma per scongiurare la crescente secolarizzazione degli ebrei romani, che rimasero folgorati dai moti del Risorgimento e subirono il fascino delle istanze liberali promosse da Cavour. Con l’annessione della città al Regno d’Italia terminò il potere temporale dei papi, il ghetto fu definitivamente abolito e gli ebrei vennero equiparati ai cittadini italiani. All’indomani di tale episodio si verificò una vera e propria corsa all’assimilazione: i giovani ebrei si riversarono in massa nelle scuole pubbliche dimenticando (o, almeno, mettendo in secondo piano) le loro peculiarità identitarie. Se l’idea di Ernesto Nathan non fosse stata concretizzata da Vittorio Polacco, probabilmente avremmo perso una tradizione millenaria che concorre ad arricchire il mosaico della Città eterna.
L’evento che si è svolto ieri mattina nel cortile del “Vittorio Polacco” ha visto la partecipazione di numerose figure istituzionali, tra cui il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. A moderare l’iniziativa è stato il giornalista David Parenzo che, pur essendo cresciuto nella comunità ebraica di Padova, ha confessato di amare la propria città d’adozione al punto tale da aver iscritto i figli al “Vittorio Polacco”. I suoi simpatici aneddoti hanno intrattenuto il pubblico strappando una risata sia ai piccoli, sia a chi aveva i capelli brizzolati. Le voci angeliche dei bambini che frequentano l’istituto scolastico, unite in un coro dalla purezza irresistibile, hanno accompagnato gli ospiti durante la fase introduttiva della cerimonia. Lo stesso Parenzo era visibilmente commosso. Nel suo intervento il Rabbino capo Riccardo Di Segni ha descritto in modo encomiabile l’importanza dell’educazione ebraica e ha rievocato il motto coniato dal Rav Dante Lattes, un’importante guida spirituale vissuta nel secolo scorso: “Ancora una classe, ancora un banco, ancora un maestro, ancora un libro”. Fulminea l’allusione a un’autorità religiosa che ha usato dei toni umilianti verso i fedeli ebrei. Secondo Di Segni, occorre rispondere alla recrudescenza dell’antisemitismo attraverso lo studio, la perseveranza e l’insegnamento della Torah.
Il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha individuato nella scuola elementare della comunità un luogo in cui si intessono rapporti d’amicizia destinati a durare per tutta la vita. Il suo entusiasmo di fronte alla gioia dei bambini era evidente. Fadlun ha approfittato dell’occasione per ringraziare le istituzioni del loro supporto e i donatori internazionali per gli investimenti. Il Campidoglio, infatti, ha adibito di recente il palazzo di via di Sant’Ambrogio al Liceo Renzo Levi. Il Presidente ha riservato un omaggio conclusivo alle morot (maestre) storiche e a quelle attuali menzionando anche le famose “zie”, che costituiscono un pilastro dell’attività didattica.
Se il sindaco Roberto Gualtieri si è soffermato sulla responsabilità della scuola nel garantire la coesione sociale, il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca ha evidenziato come l’appuntamento fosse una parentesi felice dalle emozioni convulse che hanno lacerato i cuori di chi ama Eretz Yisrael. “Oggi si riafferma la vita, l’importanza di essere resilienti” ha dichiarato Rocca, ricordando come la comunità ebraica romana abbia sempre saputo rispondere alle circostanze sfavorevoli attraverso due virtù fondamentali: la formazione e la cura dell’individuo. Entrambi i rappresentanti delle istituzioni hanno auspicato il rilascio degli ostaggi prigionieri di Hamas.
Il Presidente Fadlun ha conferito delle benemerenze al sindaco Gualtieri, al presidente Rocca e ai rappresentanti di due fondazioni filantropiche statunitensi. La cerimonia si è conclusa con l’arrivo di una notizia sorprendente: Emanuele Di Porto, sopravvissuto al rastrellamento del ghetto del 16 ottobre 1943 e divenuto celebre con l’epiteto di “bambino del tram”, riuscirà a conseguire la maturità ad honorem grazie all’interessamento del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che è stato messo al corrente della sua mancata possibilità di concludere gli studi liceali.
Mi sembra doveroso chiudere questo articolo con una considerazione personale. Quando il festeggiamento del centenario sembrava volgere al termine mi sono imbattuto in Sami Modiano, testimone dell’Olocausto sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, mentre abbracciava uno ad uno i bambini che acclamavano il loro “grande nonno”. Il testimone della Shoah non riusciva a trattenere le lacrime, vedendo decine di scolaretti che godevano di un’opportunità a lui preclusa dalla persecuzione nazifascista. Credo che questa immagine amorevole custodisca l’incontro (fisico e, al contempo, simbolico) tra un passato pieno di sofferenza e un avvenire circonfuso di luce.
Aggiornato il 25 novembre 2024 alle ore 11:23