
Anni passati a Bressanone, locale ampio, veniva eseguita La Quarta Sinfonia di Anton Bruckner, per me una manifestazione provvidenziale, passione sconfinata. Anton Bruckner non è superiore ad altri ma non inferiore ad alcuno. È Anton Bruckner. Un personaggio poco clamoroso soltanto a chi è straniero della musica classica. Chi invece ama la musica classica e ne conosce le sinfonie o lo repulsa o lo stringe con sentire fedele eterno, vita natural durante. Io ero connotato, con qualche ironia, come estimatore di Bruckner da conoscenti musicomani che sostavano tra Franz Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart. È risaputo: fu Ludwig van Beethoven l’imperatore della sinfonia, razionale, coerente, organico, possente, melodiosissimo, armoniosissimo, concettuale, chiaro e complesso, inventore per l’immissione del coro nella sinfonia, il che era assurdo per i canoni tradizionali. La Terza, la Quinta, la Sesta, la Settima, anche l’Ottava, ma infine la Nona, affermativa della volontà di vivere come mai altra musica e altra opera di altra natura! Certo, l’ultimo Mozart è degno di chiunque, l’Incompiuta di Franz Schubert si spinge nell’Aldilà. Johannes Brahms, Robert Schumann, Pëtr Il'ič Čajkovskij, Antonín Dvořák contribuiscono benissimo, e Gustav Mahler, perfino Jean Sibelius e qualcosa di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, e la Sinfonia Fantastica di Hector Berlioz e chi ne dubita?
Ma l’imperatore della Sinfonia è Beethoven, potenza, grandiosità orchestrale, compiutezza dei quattro tempi, evidenza espressiva. César Franck esiste anch’egli, certamente, e Felix Mendelssohn Bartholdy. Bruckner non sfigura, tutt’altro. È originalissimo, anticipa nettamente Gustav Mahler, è di suo influenzato da Richard Wagner, musica lunga allungata, tempi strascicati, prolissi, sconclusionati, è un’apparenza, l’introversione di Bruckner, musicista per sé, indifferente all’ascoltatore, (anche l’estremo Beethoven se ne infischia dell’ascoltatore), solitario, fa quel che sente a modo proprio, sicché estende musica buia, ignoriamo a che tende, ci stordiamo, ci annoiamo, addirittura, questo è pazzo, ma che vuole, la finisca! Di certo, l’essere Bruckner un magnifico organista ha rilievo per tale disposizione mentale. Lo strumento è polifonico, colossale e delicato e dà voce a chi lo suona come una prosecuzione dell’Io. Inoltre è strumento “religioso”, si volge all’oltreterreno, all’alto (sia Johann Ambrosius Bach padre, sia César Franck incarnano questa religiosità dell’organo. Insieme a Brukner, e altri, ovviamente).
Il suonare, ammiratissimo, l’organo determinò il modo compositivo di Bruckner, tonante, possente e delicatissimo, come è nella gamma sonora dell’organo. Le sinfonie di Bruckner sono trascrizione per orchestra ma su base di un organo gonfio, architettato, che tende all’alto, all’infinito, cercando e trovando Dio. Dopo l’inferno della confusione di una sonorità contrasta, dopo cenni di chiaritudine, arriva la celestialità dell’incontro con il Dio che Bruckner aveva in sé. Tali conquiste raggiungono le manifestazioni espressive più melodiose, armoniose, trascinanti di ogni tempo. La Sesta o Settima, la numerazione non è uguale per tutti, sfocia in una serenità depurata, traente, scorrevole non inferiore a certe rapide correntizie di Beethoven nella Sesta e nella Nona. Un fiume sonoro, sogno, estasi, rapimento, in Beethoven mondano, in Bruckner preghiera.
Quando studiavo dai gesuiti io ragazzo ma non credente mi ero convinto, non ancora con chiarezza come oggi, che le religioni durano millenni in quanto le sostiene l’arte. Sicché quando studiai a Firenze dicevo ai responsabili di una fondazione religiosa che mi ospitava di essere un credente estetico. Mi ribattevano che è la fede a ispirare l’arte non l’arte a ispirare la fede. Io sono rimasto non credente ma convinto che nei momenti in cui uno ascolta delle Messe di Giovanni Pierluigi da Palestrina, oratori di Bach padre, il Requiem di Mozart e il Requiem tedesco di Brahms, o vede certe icone ortodosse o quadri medioevali, in quel momento “crede” che esiste una dimensione suprema. Certo, è in noi, tutto ciò che avviene nell’uomo e nel mondo resta nel mondo e nell’uomo, ma è l’anelito di “altro”, una mano che si solleva a toccare non so che. Bruckner questo “non so che” lo teneva in sé, dicevo, e lo raggiungeva esprimendolo. Quasi fosse fuori di sé, per raggiungerlo.
E l’essenza delle religioni: il sé creduto fuori di sé. Vi sono momenti terremotanti nella Quarta e, dicevo, trascinamenti melodiosissimi, di perdizione della mente come al passaggio di una donna amatissima che seguiamo con lo sguardo e usciamo da noi stessi pur di non smarrirla, nella Sesta (o Settima) che andrebbero fatti conoscere all’umanità. Danno forza di vivere, se esistono tali meraviglie. Bisogna aver pazienza con Anton Bruckner: era un introverso, componeva per sé in sé, devotissimo alla fede, a modo suo, un monaco senza essere monaco, un eremita senza essere eremita. Non ebbe buona sorte quale compositore di Sinfonie, qualcosa al finire della vita. Ammirava Wagner, che lo trattava sbrigativamente alle richieste di aver giudizio. È il duecentesimo della sua nascita. Vivo, vivissimo. Personalmente me lo eseguo in mente. La Sesta o Settima Sinfonia, la dirigo quasi come Giuseppe Sinopoli, il quale lo prediligeva ed eseguiva comprendendo che dentro il groviglio vi era, vi è la gemma. Questa è la vera filosofia, il pensiero reso espressione. L’arte.
Aggiornato il 09 settembre 2024 alle ore 18:06