“L’alfabeto di Dio” ad uso dei mortali, infedeli e no

Affascinante e sorprendente libro del cardinale Gianfranco Ravasi

Questo è un libro da consigliare (senza presunzione, si capisce) soprattutto a quei politici che spacciano idee di seconda mano e consumano vocaboli fumosi. Sto parlando dell’ultimo volume di un eccezionale biblista e straordinario erudito, il cardinale Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, difficilissimo da catalogare, forse addirittura impossibile. È un libro “religioso”? Sì. È un libro sulle religioni bibliche? Sì. È un vocabolario? Sì. È una piccola enciclopedia ebraico-cristiana? Sì. Tutto questo e molto altro ancora in trecentodieci pagine, nelle quali solo un formidabile studioso poteva riassumere con profondità e leggerezza molte parole chiave (keyword) dei testi sacri alle due religioni.

Il libro, esattamente alla stregua di un manualetto linguistico, è aperto dall’alfabeto ebraico e dall’alfabeto greco con le rispettive traslitterazioni italiane. Il cardinale Ravasi sembra consapevole di aver scritto uno strano dizionario: “Chi sfoglierà questo volume per la prima volta in una libreria rimarrà forse sconcertato: sulle pagine s’affacciano, infatti, caratteri diversi rispetto al nostro alfabeto e segnati da una sequenza insolita delle varie lettere: le parole ebraiche e greche, infatti, sono state poste in successione secondo l’ordine alfabetico delle due lingue antiche. Il libro nasce da una sfida da tempo coltivata. Si tratta del desiderio di far gustare almeno qualche bagliore degli originali dei 73 libri biblici nelle due lingue fondamentali, l’ebraico e il greco”. Attenzione qui, caro lettore, niente paura! Il libro, scritto in italiano impeccabile, possiede i pregi della chiarezza e dell’eloquenza nonché dell’eleganza argomentativa, pregi che soltanto chi domina la materia sa sfoggiare senza albagia ma con espressione dotta eppure colloquiale. Leggere L’alfabeto di Dio è facile. Difficile è trattenersi dall’approfondirlo.

Dalla Introduzione, davvero affascinante per me che ignoravo quanto il cardinale Ravasi espone al curioso lettore, apprendiamo che l’Antico Testamento si compone di 300.613 parole; i termini usati sono 5750; i vocaboli selezionati (“ne sono per importanza la spina dorsale”) sono 55. Ogni vocabolo forma una sorta di “voce” che spiega, nelle poche ma esaustive pagine dedicatevi, un tema fondamentale del messaggio delle Sacre Scritture. “In un certo senso, scrive Ravasi, potremmo essere in sintonia con la voce di Gesù che queste parole le aveva imparate, le conosceva bene, le ascoltava e le ripeteva ogni sabato e nelle feste ebraiche in sinagoga a Nazaret o a Cafarnao, oppure nel tempio di Gerusalemme”. Il grande capitolo della fede biblica viene così sviluppato “attraverso un’ampia sequenza di parole tematiche nei loro significati profondi”.

Passando dal mondo linguistico ebraico anticotestamentario, al “lettore coraggioso” (ma il Cardinale esagera per prudenza) apparirà un percorso un po’ meno faticoso. Il greco, infatti, sia classico che ellenistico, sopravvive in molti nostri vocaboli. Alla forma ellenistica, detta koinè, “comune” per la sua diffusione (“nella Roma imperiale era più parlato a livello popolare il greco rispetto al latino”), appartengono anche i 27 libri che compongono il Nuovo Testamento. In tutto si tratta di 138.020 parole greche con un vocabolario di 5433 termini. Da essi sono stati estratti 54 vocaboli tra i più importanti dal punto di vista del messaggio, “così da costituire quasi una sorta di manuale sintetico della teologia neotestamentaria”. Il lettore li comprenderà attraverso le ampie spiegazioni contenute nelle rispettive “voci” e potrà dire di essere “in sintonia con le labbra stesse di Paolo e degli altri autori del Nuovo Testamento”.

A questo punto il cardinale Ravasi propone “una sorta di divagazione”, interessantissima per la maggioranza dei lettori all’oscuro (quorum ego), credo di poter insinuare. Infatti lo stesso Ravasi scrive che “la divagazione risponde a una duplice domanda che forse i lettori del Nuovo Testamento si sono posti: quali lingue parlava Gesù? Sapeva davvero leggere e scrivere?”.

Circa la prima questione, nella Palestina di allora, provincia dell’Impero, erano in vigore quattro lingue: greco, ebraico, aramaico, latino. Il “titolo” della croce di Gesù era “anche in latino” (Giovanni 19,20). Ma il latino era usato dalle forze di occupazione romane. Il greco invece era la lingua franca dell’Impero romano, “una specie di inglese di allora”. Perciò è probabile che Gesù usasse un po’ di greco (“la lingua che sarà poi adottata dal Nuovo Testamento per una comunicazione universale”), non che insegnasse in greco alle folle intorno a lui. Quanto all’ebraico, era una lingua colta, adoperata nelle discussioni esegetico-teologiche e dalle élite religiose. Al massimo, Gesù “potrebbe aver usato parzialmente l’ebraico nelle controversie teologiche con gli scribi e i farisei riferite dai Vangeli”. Quanto all’aramaico, era la lingua con la quale realisticamente Gesù parlava alla massa di giudei comuni, pur avendo una certa conoscenza del greco e dell’ebraico.

Circa la seconda questione, pare certo che Gesù sapesse leggere. Ma riusciva anche a scrivere? “Le due cose, annota il cardinale Ravasi, non erano necessariamente connesse perché spesso l’apprendimento nella scuola sinagogale avveniva secondo il metodo orale, ricorrendo alla fertile vitalità della memoria, soprattutto semitica. Tuttavia la capacità di lettura ci orienta verso una soluzione positiva del quesito”. Benché non risulterebbe una precisa e diretta attestazione sulla capacità di scrittura del Gesù storico, tale capacità “rimane comunque piuttosto probabile”.

Fu San Girolamo il grande traduttore, con immane fatica, della Bibbia dall’ebraico e dal greco in latino, la cosiddetta Vulgata. Il cardinale Ravasi ci restituisce 109 parole del Vecchio e Nuovo Testamento, i vocaboli originali in ebraico e greco, illustrandone i significati alla luce degli studi e delle acquisizioni che tutti, credenti e miscredenti, possono apprezzare, almeno come opera letteraria ed erudito excursus nelle origini della religiosità umana.

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La selezione delle parole ebraiche bibliche si conclude con un termine fondamentale. Il Cardinale è convinto che più di un lettore o lettrice conosce questo vocabolo, torah, e forse sa che, solitamente tradotto con “legge”, è usato per indicare i primi cinque libri della Bibbia, designati “Pentateuco”. Nelle sinagoghe questi libri, scritti a mano su un unico imponente rotolo di pergamena, sono posti al centro dell’abside con una lampada sempre ardente. La traduzione “legge”, benché valida, dice meno del significato profondo del vocabolo ebraico. “Esso deriva da una radice verbale che significa ‘lanciare, indicare col dito, mostrare una direzione’ e perciò una versione più precisa rimanda all’idea di ‘istruzione, insegnamento, guida’, così da seguire la strada giusta nella vita”. Quando Israele tornerà nella sua terra dopo la dura e amara parentesi dell’esilio babilonese, “sarà il sacerdote Esdra, che espletava anche le funzioni di capo politico, a proporre la torah, ossia la legge biblica, quasi a carta costituzionale del nuovo stato: in un solenne atto pubblico a Gerusalemme proclamerà il libro della legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere”. La torah dunque è tanto la parola di Dio per la vocazione soprannaturale quanto “l’anima che regge l’esistenza del singolo fedele ma anche di tutta la comunità; non è solo una legge ma un vero e proprio orientamento della vita personale e sociale”. La torah, posso aggiungere, rinvia al concetto di stabilità della “legge”, che non apparteneva soltanto alla tradizione religiosa ebraica, ma nell’antichità coeva era parte integrante della cultura delle poleis greche, le “Stato-città” dell’Ellade che nel mutamento estemporaneo del nomos, “legge”, intravedevano un pericolo per la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. “Il delitto di ribellione fra gli antichi (parole di David Hume nientemeno) era comunemente espresso con i termini neoterizein, novas res moliri”, cioè “escogitare novità”, un divieto incombente ma eluso dai politici così fortunati da vivere in un sistema di uomini liberi.

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Tra le parole greche del Nuovo Testamento vorrei estrarne due: kosmos e krisis, di pregnante significato anche politico. Kosmos è una parola greca entrata nella nostra lingua. “Il significato originario è suggestivo perché rimanda al verbo kosmeo, ‘ornare, ordinare’, il ‘cosmo’ è perciò simile a un gioiello, è un progetto divino segnato dalla bellezza e dall’armonia”. Il kosmos è l’ordine naturale del creato, ma anche l’ordine naturale della società: non l’ordine imposto dalla compressione politica, ma l’ordine politico sgorgante dal diritto originato impersonalmente dalla spontanea cooperazione degli individui. “È ciò che viene descritto nella Genesi, rileva il Cardinale, in cui il creato è dotato di ornamenti come la luce, l’acqua, gli animali, la vegetazione e, naturalmente, l’umanità”. Ma l’umanità, come sappiamo, può devastare l’armonia originaria, voluta dal Creatore secondo i creazionisti o realizzata dall’evoluzione, secondo gl’immanentisti. “Nella parabola della zizzania ‘il campo è il mondo’, nel quale attecchisce purtroppo il male accanto al grano del bene”. La riflessione simbolica sul kosmos come realtà umana ha un profilo duplice e antitetico. “Innanzi tutto è un orizzonte umano perverso, quasi un regno del male che si oppone a Dio. Lo scontro è aspro perché la terra e la storia sono rette dal ‘principe di questo mondo’, che è Satana ed è per questo che tutto il mondo sta in potere del Maligno’”. E quante volte lo abbiamo visto e vediamo aggirarsi il Maligno nel mondo sotto le sembianze di salvifico capo politico che irretisce le masse e promette d’innalzarle al Paradiso qui sulla terra, essendo il principe dell’Inferno?

Krisis, giudicare, giudizio. “Qualche volta, sottolinea Ravasi, dovremmo ripetere a noi stessi l’interrogativo accusatorio che Dante si sente rivolgere dall’Aquila celeste, ossia dalla squadra simbolica dei beati, riguardo al mistero della giustizia divina: Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,/per giudicar di lungi mille miglia/ con la veduta corta d’una spanna (Paradiso XIX, 79-81). C’è un detto orientale che ammonisce ‘Quando punti l’indice contro una persona, ricordati che nella tua mano altre tre dita sono rivolte contro te stesso’. Eppure, è forte la tentazione, come dice Dante, di assidersi sul seggio del giudice, sentenziando con facilità, senza aver approfondito il merito e le condizioni in cui è avvenuto ciò che condanni nell’altro, giudicando una realtà lontana mille miglia con la vista corta che non va oltre un palmo”. Associato a krisis è in particolare hypocrites, “ipocrita”. Scrive Ravasi: “L’ipocrisia, con la sua esteriorità onorabile ma con l’intimo corrotto e perverso, è particolarmente detestata da Gesù che, per definirla, conia l’immagine folgorante dei ‘sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli ma dentro sono pieni di ossa di morti’. L’applicazione è netta: ‘voi apparite all’esterno giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità’. Per tornare a Dante, si ricordi che gli ipocriti sono condannati nella sesta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno (c. XXIII) a procedere avvolti in una pesante cappa di piombo dorato”.

Giudizi temerari ed ipocrisie malvagie predominano nella cattiva politica che appesta certe democrazie perché troppi governanti disprezzano nei fatti i governati dapprima imboniti. Sebbene possano scegliere a ragion veduta, i rappresentati sono attratti dall’esteriorità e dalla simulazione dei rappresentanti, e non li valutano secondo le loro opere ma secondo le apparenze e le promesse. Così, mentre sembrano giudicarli, stanno condannando sé stessi.

(*) L’alfabeto di Dio di Gianfranco Ravasi, San Paolo Edizioni, 310 pagine, 20 euro

Aggiornato il 02 agosto 2024 alle ore 11:00