La polemica sul “Banchetto degli Dei-Dioniso-Ultima Cena” degli scorsi giorni, sulla quale non intendo ritornare, mi ha però suscitato la constatazione di come, ancora, nel tanto agognato e vantato XXI secolo, sia sempre viva nel volgo e nei più colti la questione estetica su cosa sia bello e cosa sia brutto. Ho sentito e letto dire solenni e sesquipedali stupidaggini, quali “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, “la bellezza è soggettiva”, e la più imbecille di tutte le frasi fatte: “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Concedetemi per una volta di riferirmi a qualcosa di mio, laddove il sottoscritto, ultimo tra gli ultimi, anni addietro ha trattato questo argomento in un suo libro, edito da Tabula Fati, dal titolo Senz’arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici, e di aver ripreso questa tematica nelle sue varianti, nei due testi successivi, ovvero L’arte spiegata a mia cugina e D’arte, d’amore e di magia. La vanità, lo ripeto ancora una volta, è il mio peccato preferito (insieme con quelli della carne).
Allora, sentire nuovamente affermare simili sciocchezze non è più accettabile, neanche da parte del più incolto degli esseri umani; e se ancora si profferiscono questi pensieri, vuol dire che qualcosa nella cultura popolare, nella diffusione del sapere, ha fallito. Insomma, dire che il “brutto” non esiste o non si possa sostenere che qualcosa sia brutto, è un po’ come continuare a credere alla piramide feudale dei vassalli, valvassori e valvassini o alla caccia alle streghe durante il Medio Evo e persino alla Terra piatta. Ma sappiamo che c’è ancora ci crede a tutto questo.
Il bello e la bellezza sua derivata sono dunque qualcosa di oggettivo, perché devono rispondere all’armonia. Un brano di Wolfgang Amadeus Mozart, di Girolamo Frescobaldi o di Johann Sebastian Bach è bello e non si discute. Un dipinto di Leonardo da Vinci, una scultura di Michelangelo Buonarroti, un affresco di Giotto di Bondone, sono belli in senso assoluto e non si discutono. Michelle Pfeiffer, Sharon Stone o Virna Lisi sono belle e non c’è discussione che tenga. Si può dire, al limite, “non mi piace” ma non mai negare la bellezza, che è un insieme di verità, giustizia e armonia tanto da essere un valore metafisico, che ci porta a dire che il bello (che è uno degli attributi di Dio) è sempre collegato al Bene e dunque è buono.
Ma allora come ci spieghiamo il brutto e la bruttezza? Non bastano una degenerazione dei costumi e del pensiero, sorta dopo la Rivoluzione francese ed esplosa con le avanguardie artistiche (non tutte va detto) del primo Novecento, per spiegare come il “mondo moderno” – quello contro il quale ci si dovrebbe rivoltare ma che tutti o quasi ormai hanno accettato – invece oggi esalti la bruttezza e il brutto che è sempre il “male”. Il miglior artista contemporaneo che ha saputo rendere questo concetto nel più efficace dei modi è stato, per me ovviamente, Hans Ruedi Giger, nella cui opera l’orrore, l’incubo, l’osceno connubio transmorfico e transumano tra la carne e la macchina, viene portato alle proprie estreme conseguenze. Giger esalta il male con qualcosa di talmente empio che rasenta una forma di estetica aliena, mai bella ma inquietante e straniante spinta sul limitare della follia. Giger non è Hieronymus Bosch né Pieter Bruegel il Vecchio, che manifestano l’incubo, l’orrore e la bruttezza, contrapponendoli alla bellezza e all’armonia. Nell’opera straordinaria del pittore svizzero, che rappresenta perfettamente l’idea del nostro tempo presente, non c’è salvezza dal male. Quindi Giger, unico tra tutti a superare ogni tipo d’avanguardia, transpostpredilat’un pass’adest’avantimarchfuristsurrealistdada, riesce a mostrare il brutto nella sua eccezione più elevata, legata all’orrido e all’incubo, a livello d’arte. Adoro Giger ma non dirò mai che è bello ciò che dipinge in maniera cos’ eccelsa.
Il brutto è dunque una sub-categoria dello spirito che nega mefistofelicamente ogni forma di trascendenza, pertanto è compito non soltanto del critico d’arte o dello studioso della stessa, anzi è suo dovere affermare coram populo quando una cosa è brutta, ovvero è priva di grazia e di armonia. Il Novecento ha introdotto dunque il brutto come valore, volendolo porre sullo stesso livello del bello e lo ha fatto nelle arti come nell’architettura e nella vita di ogni giorno, lentamente, diabolicamente, satanicamente, insinuandolo in ogni piega lasciata libera di questa società non più tradizionale. Ed è successo con la connivenza di alcuni partiti politici, la sinistra innanzitutto e con l’assenza distratta e ignava di una destra che, occupata in altro, ha lasciato che tutto questo avvenisse sotto i suoi occhi, per tacere di una Chiesa che ha abdicato al proprio ruolo di arbitro del Bello, del Buono e del Giusto.
Allora, di cosa ci stupiamo se leggiamo apologie gramsciane sull’arte di oggi, o se assistiamo a peana sull’architettura peggiore mai realizzata in duemila e passa anni, se vantiamo dipinti brutti e li facciamo passare per belli agli occhi di un popolo che tanto non capisce. E che comunque alla Biennale di Venezia non ci va, perché, giustamente si rompe i... sacerrimi.
Aggiornato il 03 agosto 2024 alle ore 13:31