L’orsacchiotto è una giovane avvenente ragazza alsaziana che il ricco Jean Chabot violenta e probabilmente mette incinta mentre, infermiera di second’ordine nella clinica di sua proprietà, era appisolata durante il turno di notte su una branda di fortuna. Tenera come un orsacchiotto se ne appropria e la prende per poi rifiutarla e scartarla vilmente quando la poveretta va a cercarlo più volte bisognosa. Fino a chiuderle letteralmente la portiera della macchina in faccia. Era una notte piovosa, lei chiedeva aiuto tendendogli la mano poco prima di gettarsi disperata e sola nella Senna, sopprimendosi. Si chiamava Emma. Con il supporto infido e carognesco della amante di riserva, cioè la segretaria Viviane pronta a tutto per lui, la ragazza viene relegata al nulla nella apparente ricchezza e fastosità della vita benestante seppure faticosamente conquistata e voluta da Chabot, il quale assomiglia tanto – quasi fino alla totale identificazione – alla vita e autobiografia stessa dell’autore del libro ovvero di Georges Simenon. Con la pistola in tasca, Chabot è pronto a uccidersi perché in cerca di un sé stesso che non trova e non c’è, scoprendo solo l’assassino e il distruttore di tutto ciò che ha pur creato e gli gira intorno. Che comunque se ne infischia di lui e della sua malvagità, mal sopportandolo e finendo con il farsene una ragione. Però guarda caso, uccide un altro non sé stesso. Stavolta un giovane ragazzo suo alunno alla scuola di medicina che trova casualmente in casa con la segretaria sua amante. È un dramma umano senza fine la storia di Chabot-Simenon, che colpisce perché non arriva mai a chiedere il conto a sé stesso rivolgendosi sempre agli altri cui vuole fondamentalmente molto male.
Esemplificativo e magistrale il penoso rapporto con la madre di Chabot, tale e quale peraltro a quello che lo stesso Simenon intratteneva con la propria madre (lo riferisce nella propria autobiografia lo stesso Simenon), la quale, protesa ad aiutare e a fare del bene alla giovane coppia di suo figlio – marito e nuora – agli inizi in povertà, la rifiuta augurando loro “comunque la felicità se ci riescono” quando diventa la coppia mondana e ricca, ambiziosissima. Un marito e moglie egocentrici ed egoisti, aridi di sentimenti e di affetti come il deserto più arso ed aspro. “Che cosa volevi dirmi? Sembrava più umana. Forse sperava che stesse finalmente per confessarle di essere infelice nonostante le apparenze, e nonostante i soldi? Allora avrebbe potuto consolarlo”. “Niente è piacevole e sereno. Da nessuna parte”, avverte Simenon il lettore nella bellissima traduzione del libro fatta magistralmente dalla valente Laura Frausin Guarino. “Perché in casa avevano perso l’abitudine di abbracciarsi?”, si chiede Chabot quando ormai tutto è già perso a totale mancanza di frequentazione, sentimenti e di comunione in famiglia. Senza che mai arrivi a pensare di poterne essere la causa. “Le parole cadevano nel vuoto e non significavano niente. Ogni tanto parlavano della sua stanchezza, della sua salute, del suo lavoro, ma nessuno se ne preoccupava realmente. Ci vivevano, del suo lavoro, e tanto bastava”. “Mangiavano gli antipasti in silenzio e lui si rendeva conto di metterli a disagio. Gli capitava, avvicinandosi a una stanza, di sentire delle voci allegre che improvvisamente tacevano non appena passava lui. Soltanto sua moglie si sforzava ancora, di quando in quando, di tenere viva la conversazione, di creare un’animazione fittizia”. Simenon fa avere a Chabot il suo stesso problema di ex povero diventato ricco lasciando dietro di sé un museo degli orrori di sentimenti mancati e distrutti.
Perché Chabot e Simenon non possano essere ricchi di soldi e di sentimenti, non si capisce. Ecco quindi lo sperimento, il nulla, la caduta ricorrente, anzi direi costante e ripetitiva, della persona che non trova sé stessa, per la quale niente ha valore, tutto diventa ed è niente. “Chabot non usciva più da tempo. Sua moglie continuava a farlo, senza convinzione, forse per colmare un vuoto nell’unico modo alla sua portata. A volte, vedendola così elegante, così attenta al viso e alla linea, terrorizzata all’idea di invecchiare, si era chiesto se avesse degli amanti. Gli sarebbe sembrato naturale. Forse se l’era persino augurato, come per quietare la propria coscienza, benché certe immagini gli facessero gelare il sangue. Anche lei, come lui, aveva perso il contatto con i figli? Meno di lui, in ogni caso, e benché i ragazzi facessero quello che volevano, e non nascondessero il fastidio di dover vivere ancora nel mondo degli adulti, a volte lui coglieva tra loro e la madre uno sguardo complice”. Un “filo” che tiene, flebile, a contrasto del forbicione inforcato dal marito e padre che, indifferente e disinteressato, ha offeso e distrutto. “Lo avevano escluso dalla cerchia familiare, o ne era uscito lui, senza accorgersene. Cambiava poco, il risultato era lo stesso”. Chabot non si orienta, dice a sé stesso, quasi rinfrancandosi che “il confine tra normale e l’anormale non è netto. Spesso è questione di sfumature, di un po’ più o di un po’ meno di qualcosa”. Seguire la routine come un cavallo da circo è per Chabot la normalità, non trovando il sé stesso che non c’è. “La verità, in fin dei conti, era che ne aveva abbastanza, che si augurava una catastrofe, come alcuni si augurano una guerra per porre fine alle proprie tribolazioni quotidiane. Liberarsi di colpo di tutte le preoccupazioni, di tutti i fardelli che gli si erano accumulati sulle spalle, delle sue ignominie, dei rimorsi. Non essere più obbligato, a ora fissa, a diventare il professore infallibile che deve salvare il mondo”. “Troppo tardi. Era troppo tardi da sempre, era per questo che aveva continuato a recitare la sua parte, ormai lanciato, come un automa. Finora aveva funzionato. A un dato momento avveniva lo scatto”. “Così che, alla fine, non era più nessuno. Quello che andava cercando dal mattino, da mesi, da anni, era sé stesso, ecco la verità”.
(*) L’orsacchiotto di Georges Simenon, traduzione di Laura Frausin Guarino, Biblioteca Adelphi 2023, 147 pagine, 18 euro
Aggiornato il 01 agosto 2024 alle ore 16:33