I sessant’anni del Beat 72

Gli spettacoli teatrali di Carmelo Bene rappresentati al Beat 72 (che l’attrice e musa Lydia Mancinelli prese in affitto da Ulisse Benedetti) furono la prima edizione di Nostra Signora dei Turchi, la seconda edizione dell'Amleto e Salvatore Giuliano, vita di una rosa rossa e la seconda edizione di Salomè. Quest’anno si celebrano i sessant’anni della celebre cantina romana dove è nato il “Teatro immagine”. La cultura Beat americana è di pochi anni prima e da noi la si conosce appena (Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg arriva nel 1965 e Sulla strada di Jack Kerouac nel 1967). Beat 72 si trova al numero civico di Via Giuseppe Gioachino Belli, nel cuore di Trastevere. Una cantina buia e umida (siamo a 100 metri dal Tevere), cui si accede dalla strada per una lunga e ripida scala, che riesce a ospitare una cinquantina di spettatori, davanti a una piccola pedana (quattro metri per due) che possiamo considerare un po’ la culla di tutta la neoavanguardia romana e la stagione appunto delle cantine negli anni Settanta, che avrebbe influenzato tutto il teatro italiano con la sua ricerca fisica e visiva e vitalità contestatrice delle platee dalle poltrone rosse.

Tanti i nomi legati a quello spazio, ma due restano iconici e storici, dopo Bene, Giuliano Vasilicò (e la sorella Lucia) col forte, incisivo Le 120 giornate di Sodoma dall’opera di De Sade (novembre 1972) preceduto da una sua lettura di Amleto (luglio 1971) e Memè Perlini col suo inquieto, suggestivo e inquietante Pirandello chi? (gennaio 1973). Lì vivono anche, per iniziativa di Ulisse Benedetti, Simone Carella e Franco Cordelli, le serate settimanali dedicate ai poeti che recitano i loro versi da soli e creano performance col supporto di attori (da Dario Bellezza a Valentino Zeichen, da Renzo Paris a Gregorio Scalise, da Elio Pecora a Maurizio Cucchi) da cui nascerà poi nel 1979 il primo, storico, Festival dei poeti di Castelporziano. Il Beat 72 è uno spazio leggendario. È una casa aperta, un luogo in cui passano in moltissimi: Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Federico Tiezzi, Cosimo Cinieri, Roberto Benigni, Mario Martone. Nicola Fano ricorda una serata in cui “una manciata di spettatori veniva fatta accomodare sulle poltrone immerse nel buio, con una vaga musica diffusa per una mezz’ora. E poi null’altro, non un’azione, non una parola, non un attore”. È il tempo in cui quel teatro che verrà definito “Teatro immagine” per la sua attenzione allo spettacolo e l’effetto visivo e l’uso in scena dei corpi e le luci, sempre praticamente senza voce, senza un vero testo o battute di dialogo, ritrova invece appunto la necessità della parola, si misura con testi nuovi e classici.

Aggiornato il 24 luglio 2024 alle ore 17:38