Delle sculture esposte a Roma, in vari punti del centro, di Fernando Botero, mi piace soltanto il gatto che sta in piazza San Lorenzo in Lucina, per le mia ben nota fede di gattolico fondamentalista.
So che ciò che sto per dire a qualcuno non piacerà, ma a me Botero, scomparso l’anno scorso, annoia da molti anni. A suo tempo divertente, ormai è diventato “accademia” e così Roma gli ha voluto rendere omaggio con una mostra diffusa in sei luoghi e con otto sculture che “dialogano” – come sono soliti scrivere coloro che trattano d’arte – con lo spazio urbano.
Io invece avrei preferito che tale dialogo fosse rimasto il mistico bisbiglio del Cristo crocefisso di Guido Reni sull’altare maggiore della Chiesa di San Lorenzo in Lucina o l’ombra che cade sulle pareti dipinte dell’Oratorio del Santissimo Crocifisso, non molto distante, opere del pennello prebarocco del Pomarancio. Insomma, se un tempo l’Urbe aveva le sue “statue parlanti” da Pasquino a Madama Lucrezia, dal Facchino al Babuino, oggi ha quelle ipertrofiche dell’artista sudamericano in punti di grande passaggio, sino al 1° ottobre prossimo.
Certo, molto meglio vedere le opere del colombiano Botero che non i “Cestò” voluti dalla giunta Gualtieri, che già si stanno rivelando un eccellente self-service per i gabbiani. Esteticamente migliori dei loro predecessori – ci voleva poco – già si stanno rivelando altrettanto inefficaci per i larghi varchi nella loro struttura. Aperture che non proteggono l’immondizia dal rostro feroce dei volatili marini ormai stanziali nel centro storico cittadino, comunque realizzato in materiale ignifugo e non deflagrante nel caso qualche gabbiano “kamikaze” volesse farsi saltare in aria con il contenuto. “Cestò” presto sarà ubiquamente presente sino alla più distante periferia urbana.
Se Botero è “il pittore della felicità” egli, inviso ad ogni forma d’avanguardia, fu avanguardia e come ogni innovatore che sia tale, alla fine diviene un classico che sa di già visto e se le sue opere pittoriche posseggono e trasmettono una felice ironia, quale, ricordo ad esempio, una sua versione de I coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, le sculture si rivelano eccessive nel loro gonfiore, che poi è la cifra boteriana, per le strade cittadine che anelano all’immagine evocatrice dell’età barocca o, quando ancora esiste, rinascimentale.
Botero piace a tutti, un po’ meno alla critica, mentre io resto nella zona di crepuscolo tra il divertimento e l’annoiato, tra un richiamo iperespanso a una classicità di forme e di contenuti e la volontà di trasgressione. Fernando Botero ben conosceva la lezione del nostro aureo passato e in qualche modo, a suo modo, originalmente la fa propria e la reinterpreta: figurativo in un mondo di astrazione spesso fine a sé stessa, la sua arte è semplice ma non scontata, tuttavia questo suo mondo largo e allargato, dove non soltanto gli esseri viventi sono extralarge ma anche gli oggetti, trovo sia molto distante dall’immaginario narrativo dell’urbe. Lungo quelle strade oggi dedite allo shopping di lusso che soltanto quattro e cinque secoli fa erano frequentate da leoni e prostitute, artisti e bravacci, le curve morbide delle sculture di Botero sorridono laddove quelle di Francesco Borromini elevano, ma forse è giusto che sia così, in questo tempo orizzontale, è più adatto a parlare con l’essere umano Fernando Botero che Gian Lorenzo Bernini… intanto là, nell’ombra fresca dell’estate, in San Pietro in Vincoli, un Mosè sembra distogliere lo sguardo e scuotere la testa dalle “corna” ritorte dai nuovi cestini ecosostenibili.
Aggiornato il 16 luglio 2024 alle ore 09:26