Cresce a Torre Maura, periferia est di Roma. Ora vive fuori dal Gra (Grande raccordo anulare) e dalla Città eterna. Ma non troppo lontano. Nel periodo del lockdown prende carta e penna. E scrive Esiste la luce nel buio. La strada per sconfiggere la tossicodipendenza (Kimerik, 188 pagine, 15 euro). Lei è Paola Aceti, 54 anni, cuoca, da sempre appassionata di scrittura. Il suo è il primo romanzo, una chiara espressione di un’immensa voglia di riscatto. In un colloquio con l’Opinione, Paola Aceti ripercorre la sua vita. Tra discese e risalite. Tra il fondo, toccato nel momento più basso della sua esistenza, e la rinascita. Nel mezzo, tanta forza di volontà. Ma soprattutto la presa di coscienza di aver capito i problemi e i disagi che sono, nel suo caso, quella miccia che conduce all’alcol, alla cocaina e infine all’eroina. Adesso è un’altra persona. E la sua esperienza la intende mettere al servizio del prossimo.
“Ho iniziato a scrivere il libro durante la pandemia da Covid, quando tutti noi, giocoforza, stavamo nelle nostre case. Io accudivo mio padre. Il motivo? Ho rivissuto in un certo modo l’esperienza legata a Rebibbia, ai domiciliari e all’obbligo di dimora. Ho avvertito quella chiusura”. Da qui l’idea di quella che è una autobiografia. Senza filtri, senza omissioni. “Ho due sorelle e un fratello. La mia è un’adolescenza segnata da un’educazione molto ferrea. Un padre troppo severo che ha trasmesso questa sua rigidità al resto della famiglia. Sottolineo ciò perché, ogni volta, ripeto che ogni figlio nasce diverso. E i genitori devono capire il carattere di ciascun figlio, e mantenere l’atteggiamento più giusto in base alle caratteristiche del minore. Io – va avanti – quella rigidità l’ho subita. Che ha portato a chiudermi in me stessa. Ero una ragazza impaurita del mondo”.
Ma poi Paola, a 18 anni, conosce un uomo, che diventerà suo marito. “Mi sposo presto, a 21 anni. Sì, ero innamorata. Ma per me significava anche libertà”. Il matrimonio, però, a un certo punto inizia a scricchiolare: “Comincia una crisi, lui fa uso di sostanze stupefacenti pesanti: parliamo di cocaina ed eroina. Me ne sono accorta quando ho notato i segni sulle sue braccia. Allora mi è caduto il mondo addosso, sono finita in depressione. Probabilmente, se in famiglia ci fosse stato un altro tipo di rapporto, avrei avuto un sostegno maggiore in quei momenti di difficoltà. Invece, non ho avvertito una comprensione. Anzi, mi sono sentita giudicata”. Dopo una decina d’anni di unione giunge il divorzio.
Per Paola Aceti comincia una fase di assenza dal mondo, chiusa in casa, con l’affitto da pagare (“mi tolsero anche la luce”) e mille difficoltà. Finché un giorno dice basta e reagisce. Trova lavoro in un bar. Quell’impiego le dà la forza di non pensare al malessere. Un malessere legato a cosa sta attraversando il suo ex: una pena sì d’amore, ma anche perché lui, in quel momento, è impantanato con la droga. Un malessere che, purtroppo, viene coperto dall’alcol: “Bevo una, due, tre volte. Vado avanti, inconsciamente, finché mi rendo conto che sono anestetizzata. Dopo settimane e mesi subentra la dipendenza”. La strada è senza uscita: “Non ti basta più, nei momenti di lucidità soffri. È un tunnel di merda, perché ci sono frangenti dove soffri, per te e per i tuoi cari. Stai male e ti annienti. Se pensiamo per esempio alla droga, c’è una equazione che è chiara: più malessere, più dose. Più sofferenza, più dose. Da qui poi che avvengono i suicidi per overdose”.
Paola, a quel punto, segue per circa tre anni un percorso in una comunità: “Qui dovrebbero avere un programma specifico per ogni persona, attraverso il quale creare l’iter più idoneo da percorrere. Nel mio caso, non avevo bisogno di responsabilizzarmi. Ho sempre aiutato in casa: sono sempre stata educata, sbrigavo le faccende domestiche da quando ero piccola”. Quando esce dalla comunità, Paola incontra un ragazzo. Si fidanza. E conosce prima la cocaina, a seguire l’eroina: “Perché ci sono cascata? Perché non avevo risolto i miei traumi. Non avevo fatto i conti con loro. E così ho fatto uso di sostanze stupefacenti pesanti, che ti devastano. Il cervello impazzisce, vorresti farla finita. Io non ho avuto il coraggio. Mi ha salvata l’amore, a cui mi sono aggrappata. L’amore della famiglia. Perché l’amore, dopotutto, ti sorregge”.
Un altro viaggio per disintossicarsi (“chi va in comunità non intende prendere in giro nessuno, vuole effettivamente smettere. Il tossico vuole lasciarsi alle spalle la droga, ma serve il contesto adatto”) ma c’è la ricaduta. “Dio aiutami. O fammi morire. Questo ho pensato. La droga è maledetta, è una ladra di sentimenti, ruba te stesso e altri. È ingannatrice. È una bestia che diventa veleno. Fino a portarti alla morte”. Paola Aceti, nella disperazione più totale, giunge anche a delinquere. E un colpo al supermercato, paradossalmente, diventa la sua salvezza. Perché viene arrestata (“ho anche ringraziato, un giorno, i carabinieri”) e subisce una pena detentiva di tre anni e sei mesi, per il concorso in rapina. Due anni li trascorre nel carcere di Rebibbia. Il resto tra domiciliari e obbligo di dimora.
Ecco, allora, la redenzione di Paola. “In quel momento ho visto la speranza, ho capito la strada da percorre, il perché non ero mai uscita fuori. I traumi, i disagi, li andavo a coprire con le sostanze. Meditando con me stessa, ho percepito tutto questo. Tante persone, in carcere, mi hanno aperto gli occhi. Io poi sono credente. E ho pensato che Dio mi stesse facendo riflettere”.
Il secondo tempo di Paola Aceti diventa realtà. “Ho capito quali fossero i miei fantasmi, ho compreso come lavorare per estirparli. Ho lavorato su me stessa. E questa strada mi ha portato, pian piano, lontano. Fuori da questo schifo. In 4 anni con mio padre ho avuto un rapporto migliore che in 40. Ho affrontato le paure, che solo noi conosciamo. L’educatore non è magico, è uno strumento. Ho scoperto da me il meccanismo per semplificare la rinascita”.
Ora il libro, con una luce che brilla di più. Quella luce che Paola Aceti, adesso, mostra agli altri. Una donna rinata, che intende fornire il suo aiuto. Perché una via di fuga, comunque, c’è.
Aggiornato il 05 luglio 2024 alle ore 14:59