“Quattro figlie”: le donne e l’Islam radicale

Il docufilm-verità, Quattro figlie della regista Kaouther Ben Hania, nelle sale italiane dal 27 giugno, è innanzitutto un esperimento per metà in vitro, e per l’altra parte in corpore vili, che poi è quello collettivo di ben cinque donne: una madre tunisina e le sue quattro figlie. L’incapsulamento del vissuto che torna e si fa protagonista-interprete, viene avvolto nell’involucro della fiction che fa da stampella e cornice a un racconto assolutamente drammatico. Così la regia ha modo di seminare le sue intuizioni geniali barcamenandosi tra il virtuosismo lirico e la crudeltà del bisturi chirurgico, che reseca all’interno della comunità tunisina l’involucro della neoplasia dello Stato islamico, già ampiamente metastatizzata nel corpo dell’intera società araba. Così com’è realmente accaduto, a seguito del clamoroso fallimento delle Primavere arabe, con la diffusione del Califfato in ampie zone della Siria e dell’Iraq nel secondo decennio di questo secolo. La cornice della storia vera, innanzitutto è la seguente: Olfa Hamrouni (che interpreta sé stessa, affiancata e sostituita, nelle fasi più drammatiche del suo racconto autobiografico, dall’attrice professionista Hend Sabri) è una madre tunisina, entrata nell’occhio del ciclone dei media di tutto il mondo, a seguito della decisione delle sue figlie maggiori, le adolescenti Rahma e Ghofrane, di abbandonare lei e le altre due sorelle, partendo alla volta della Libia per radicalizzarsi in maniera definitiva ed entrare nelle file dello Stato islamico (Isis). Ma lo spartito, già drammatico per il violento distacco tra le quattro sorelle legatissime l’una all’altra, viaggia su un altro motivo conduttore: il ruolo e la vita della donna all’interno di una società musulmana tradizionale.

Così Olfa sarà, come lo furono con lei sua madre e sua nonna, innanzitutto una guardiana dei valori etico-morali e delle tradizioni patriarcali dell’Islam tradizionale, in cui l’uomo è il vero dominus e padre-padrone della(e) propria(e) moglie(i) e della relativa famiglia. Nella vita coniugale della protagonista non ci sono stati né baci, né preliminari, così come del resto accadde fin dalla prima notte di nozze, passata a sostenere con coraggio le incursioni, le grida e gli insulti di sua sorella, solo perché Olfa si rifiutava di consumare il matrimonio. Le apparenze vengono salvate, però, quando la sposa reticente picchia il marito, come era abituata a fare con i maschi che le insidiavano le sorelle, per poi mostrare il lenzuolo insanguinato (del sangue di lui) alle grida di giubilo dei parenti, che attendevano al di fuori della stanza coniugale il lieto evento della deflorazione. Prima del divorzio, Olfa si concederà una volta all’anno al coniuge remissivo, rimanendo altrettante volte incinta delle sue quattro figlie. Dopo di che, commetterà un errore ancora più grave, innamorandosi di un soggetto tossico, che ne insidierà le figlie dopo aver consumato le notti con lei. Allora, a questo punto, il panorama degli affetti si fa fitto come le spine di un roseto, in cui sono le due figlie piccole a rivisitare il calvario di sofferenze inflitte loro da una madre anaffettiva, confusa e manesca, che consuma la sua esistenza tra lavori degradanti di domestica a ore in patria e all’estero, vedendosi sfuggire ogni controllo sulle due figlie maggiori, prima preda di un secolarismo sfrenato e poi, con la stessa intensità, votate all’Islam fondamentalista e al culto ossessivo del chador.

E sono le due figlie più piccole, protagoniste di sé stesse, a interagire con grande semplicità con le due giovani attrici professioniste, chiamate a interpretare il ruolo di Rahma e Ghofrane, gioendo di questo gineceo a metà fiction e per la parte simmetrica puramente reale, in cui deborderà incontenibile la gioia di vivere delle une e delle altre. Tanto da produrre letteralmente uno choc nel tradizionalismo bigotto di Olfa, finalmente messa brutalmente a confronto con la realtà del mondo moderno e delle aspirazioni autentiche delle sue figlie e delle generazioni più giovani. La parte fondamentale del racconto riguarda fuga-sottrazione delle più giovani dal maleficio del chador, rispetto al quale emerge prepotente nei loro racconti il lato oscuro, in cui un Jinn (versione islamica dei demoni) si impossessa del corpo della sorella procurandole convulsioni, e rendendo così necessario il ricorso a un’esorcista (donna) islamica. Oppure, quando per parossismo fideistico, si racconta di persone che hanno voluto provare prima del tempo l’ebbrezza del contatto diretto post-mortem con Dio, facendosi seppellire vive con una bombola di ossigeno al fianco per continuare a respirare. Il credo dell’Islam radicale e l’indottrinamento politico religioso prorompono con tutta la forza del messaggio fondamentalista, quando una Ghofrane sedicenne, prima di partire, affronta velata il delegato di polizia e sua madre, che l’ha denunciata per impedirle di finire sposa dell’Isis, in cui è la giovane, nel corso di un colloquio drammatico, a mettere in difficoltà il poliziotto, facendolo sentire un apostata, indegno del perdono di Dio.

E poi, nel finale, il colpo di grazia: i filmati originali delle due sorelle incarcerate, condannate a 16 anni di reclusione ciascuna per aver sposato altrettanti jihadisti, in cui una delle due ha allevato in carcere la propria figlia neonata. Come dimostrano i filmati originali della tivù tunisina, che ha mandato in onda le immagini di Rahma e Ghofrane coperte con il velo integrale, con accanto una bambina adolescente, figlia della sorella maggiore. E sono i fiumi di lacrime versate dalle donne, dalle più mature alle più giovani, a ricostruire l’humus del dramma autentico di una tradizione antica di millenni, che impedisce alla vita nova della modernità di venire al mondo, con la stessa naturalezza in cui la cosa accade in tutte le altre civiltà estranee all’Islam. Assolutamente da vedere, con le cinture saldamente allacciate!

Voto: 8,5/10

Aggiornato il 25 giugno 2024 alle ore 14:35