“Bridgerton”, una favola che fa sognare

La serie tivù Bridgerton è un successo di pubblico che vuole sognare. È bella da vedere perché le ambientazioni e i vestiti sono godibili, ed è bella da ascoltare perché il linguaggio è colto e forbito, assolutamente in controtendenza rispetto alla pattumiera delle espressioni rozze e triviali che vengono propinate intorno a noi, quotidianamente. La serie statunitense ideata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes, è basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell’alta società londinese durante la Reggenza inglese. La serie ha debuttato il 25 dicembre 2020 su Netflix. Bridgerton rappresenta il sogno, come la fiaba di Cenerentola. Oramai è alla quarta serie e gli episodi hanno un tale seguito che la produzione non fa in tempo a immetterli in video che il pubblico li premia (è sempre al primo posto di gradimento). Perché la serie tivù è così seguita e apprezzata? Perché è contraria all’andazzo comune, fatto di scostumatezza e maleducazione, di asocialità e trivialità. È un fumettone in cui finalmente il romanticismo emerge e può essere visto in tutta la sua bellezza e armonia. I sentimenti messi così bene in risalto nella serie sono sinceri, premianti e premiati. C’è il cuore nei racconti dei Bridgerton: una famiglia di inizio Ottocento che vive a Londra nel quartiere più chic e nobile di Mayfair. C’è la mamma dei cinque o sei figli in età da marito i quali, uno a uno vengono presentati in società cioè alla Regina Carlotta che è una divertentissima regina che comanda sui sudditi con nobiltà e bassezze. Ci sono le trame delle mamme che sognano di fare sposare le figlie – giovanissime, sui quindici anni – e tante scene di ardente amore tra gli innamorati.

La serie ha chiaramente un intento semi educativo volto all’integrazione dei generi e delle popolazioni perché gli amori e le trame sbocciano tra colored people, giapponesi e asiatici in generale, bianchi, indiani e via dicendo. Si vuole evidentemente mostrare una società ristretta, nobile, chiusa inglese che non è esistita e che comprende e “assembla”, mette insieme bianchi, neri, rossicci e chi più ne ha più ne metta. La regina è di colore, così come la sua consigliera fidata. Tutta la famiglia Bridgerton è bianca, inglese, occidentale. Come sarebbe stato nel Settecento e ai primi dell’Ottocento. La regia dei Bridgerton ha come “riavvolto” il filo della realtà in chiave netflixiana e mostra una leggera aspirazione verso l’affermazione della donna – settecentesca e bianca – in una società che non permetteva che lo stretto coniugio di convenienza. Ecco, invece, che parla di amore e tenerezza, di regole accarezzate e lievemente poste su un ipotetico banco degli imputati in cui però la padrona di casa, ovvero la regina, le ha già contravvenute tutte, essendo improbabilmente di colore e all’apice del regno. In questo originale Potpourri in Technicolor tra abiti e acconciature improbabili quanto ridondanti a mo’ di farsa, gli antichi splendori e sontuosità che la serie tivù estasia e fa innamorare lo spettatore – credo più spettatrici donne che spettatori – trasportando in un’altra realtà che estrania e fa sognare. Ci vuole poco, tanta è la volgarità che ci circonda.

Aggiornato il 19 giugno 2024 alle ore 13:39