La religione e (è) l’arte

Le religioni hanno validità anche per i non credenti. Infatti rilevano le condizioni dell’umanità. Origine cosmica, come agire, la morte e la vita. La differenza, la divergenza, del credente con il non credente sta nel sentire tragico. La religione sorge per coscienza della tragedia, risolvendola, supponendo di risolverla. Sicché: vi sarebbe un creatore, avremmo certezza di come operare il bene, la morte si scioglie nellimmortalità. Insomma, tutto risolto. Supposizioni assegnate alla fede, questa la vera scoperta delle religioni. La fede, che sopprime i dubbi, è germogliata appunto dall’ostilità della ragione. tanto più la ragione reputava assurde, improvate, contraddittorie le religioni, tanto più accresceva la fede. Strabiliante rimedio che rende eterne le religioni, le quali reggono laddove la ragione, dubitando, uccide sé stessa. Ma rinasce dubitando.

Gli artisti, che sono specie razionale che attinge all’irrazionale, al sensibile, al sentire. Dunque persone totali. Il filosofo e lo scienziato si circoscrivono alla ragione. Gli artisti, che avvertono sensibilmente la condizione umana, sono spesso dei sacerdoti senza Dio. Significa che scontano le caratteristiche della religione – enigma dell’origine, dell’essere, dilemma del fare, la morte – ma non si rendono credenti, anzi sono spesso miscredenti. È un fenomeno culturalmente notevolissimo. Alcuni artisti, ripeto, pervengono a manifestazioni stupefacenti, mediante un vestimento, canoni religiosi che esprimono la condizione umana, ma non propongono salvezza, come invece fa l’essenzialità religiosa. Vi è l’aspetto tragico della religione ma non vi è redenzione. Alcune delle messe sovrane della vicenda musicale, come il Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart, la Messa solenne di Ludwig Van Beethoven e il Requiem di Giuseppe Verdi, sono terrificanti espressioni della morte o di sommovimenti drammaticissimi, ma senza apporre alcuna fede redentiva. Inoltre, i tre compositori non avevano una fede identificabile in religioni comuni. Mozart era massone, come Beethoven – anch’egli massone ma non quanto l’austriaco. Verdi era addirittura blasfemo, a dire di Giuseppina Strepponi, consorte credente e irrisa.

Come mai ebbero ispirazione religiosa? Perché la religione contiene e manifesta le situazioni estreme della condizione umana. Un’opera lirica, una sinfonia non avrebbero potuto rendersi mezzo espressivo della morte. certo, un tempo della Terza Sinfonia di Beethoven è musica funebre, anche Richard Wagner dà musica funebre, ma la veste religiosa è più interna a tali situazioni. Solo il Benedictus (Messa solenne di Beethoven) poteva svelare l’invocazione disperata dell’uomo che vi sia salvezza. Con tutto il riguardo per altre sublimità, il Benedictus è universalistico, abbracciante, come il Canto della volontà di gioia della Nona Sinfonia, ovvero la musica come filosofia resa sensibile.

In quanto a Mozart e Verdi, terribile, buio incavernato. Il Requiem aeternam dona eis, Domine nel compositore lombardo – cantato da Ezio Pinza – è di sconfortante resa, anche se dovrebbe forgiare immortalità. Non quella dell’anima, ma della morte. E il Dies irae, sempre nel Requiem di Giuseppe Verdi, racconta un Dio incombentissimo, per niente benevolo. In Mozart la fine è tanto celestiale quanto mestissima, con squarci violenti, annientanti. Vi è una modalità di attingere alla nostra civiltà in modi culturali che non necessariamente esigono la fede. Occorrerebbe percepire le “nostrereligioni anche come manifestazioni culturali, arte. Non è che un ateo si deve privare di Johann Sebastian Bach perché potentemente credente. L’arte supera l’ideologia, in quanto provenendo dalla sensibilità fa sentire la condizione umana. Non è dimostrativa, è percettiva. Se qualcuno vuole sentire la forza che occorre per “superare” la difficoltà di vivere deve ascoltare la Nona di Beethoven – Italo Svevo la considerava per sé un rimedio antidepressivo – se qualcuno vuole capire sentendola l’evenienza mortale, ascolti Mozart o Verdi. Il risultato è paradossale: perfino la musica più tragica dà gioia. È per questo che l’uomo ha “inventato” l’arte.

Codicillo. Casualmente trovo da poter ascoltare registrazioni di Enrico Caruso e di Maria Callas. Caruso è Giove che canta, maestoso e senza sforzo, al centro delle note. Sempre di petto, con passaggi scorrenti, ora possente, ora morbido, così, senza volontà, onde dell’oceano, spinge la voce agli estremi ma non si sforza, come riesce a dare acuti colmi. È strabiliante, specie perché è un tenore. Maria Callas, in talune “arie” di queste registrazioni, dice: “Vissi d’arte, vissi d’amore (Tosca)”. Ha una serietà pensosa nel considerare la sua vita, ora esposta all’oltraggio immeritato da quel farabutto del barone Vitellio Scarpia, che trae l’ascolto compassionevolmente. E poi getta la voce in acutismi e cupezze, da forsennata dolente mezza matta. Educazione estetica. Dobbiamo rendere l’insegnamento estetico”, ossia umano, espressivo, espressivo dell’umano. Sentire, non soltanto conoscere. Conoscere e sentire. Apprezzare l’arte. D’altronde anche Faust, l’uomo del fare, si innamorò di Elena.

Aggiornato il 11 giugno 2024 alle ore 17:27