Ago, capitano silenzioso: un eroe raccontato da Ariele Vincenti

Uno spettacolo per tutti. Un inno al silenzio. Perché il silenzio “fa più rumore di una curva dopo un gol”. Ariele Vincenti con Ago, capitano silenzioso porta in scena Agostino Di Bartolomei, indimenticato capitano della Roma (si tolse la vita il 30 maggio del 1994). Ma non solo. Al centro di tutto irrompe la quiete, nella sua essenza. In un viaggio per scoprire cosa ci sia dietro, tra il palco e il bar sport di periferia. Con al centro lui, il numero 10 dello scudetto dell’annata 1982-1983, “un eroe. Un eroe tragico”.

“Ho studiato un anno – racconta Ariele Vincenti all’Opinione – ho provato tre mesi, da solo, in un teatro dei Castelli romani. E a livello simbolico il silenzio, in quel teatro, ha rappresentato la spinta che ha dato il là a tutto”. In un vortice senza soluzione di continuità, ecco l’idea che prende corpo. Accompagnata da una ricerca, incessante: “Mi sono basato sui racconti di Tor Marancia dove Ago è cresciuto. Sono andato al campo Omi, dove Agostino ha mosso i suoi primi passi. Lì, ho trovato un centro fitness. Mi ha accolto una signorina, molto elegante. Io indossavo dei bermuda. Dissi che stavo facendo delle ricerche su Di Bartolomei. Ma non sapeva di chi stessi parlando. Allora mi è venuto incontro il direttore della struttura. Anche lui non sapeva chi fosse Ago. Mi è stato rivelato che quel centro era lì dagli anni Novanta. E che aveva sostituito un ricovero di senza fissa dimora. Proprio un barbone, da me interpretato, entra nello spettacolo. E avrà un suo sviluppo”.

Incontri, visite, che vanno da “Pino, primo allenatore di Agostino Di Bartolomei, agli amici”. Fino al bar “dove è cresciuto e dove ho trovato il figlio del barista storico” e ai “vecchi ultrà del Cucs (Commando ultrà Curva Sud). Ho raccolto storie – prosegue Ariele Vincenti, 47 anni, attore e regista teatrale – avevo un’idea di base. Corredata dalla gente e da cosa abbia significato Ago per loro”.

Lo spettacolo prende quota attraverso gli occhi di un amico di infanzia di Agostino Di Bartolomei, ex ultrà, il quale viene a sapere della morte dell’ex calciatore. Così va sotto casa del Capitano, per lasciare uno striscione. Dove compare la scritta “Silenzio”. “È un escamotage – confessa Vincenti – che mi permette di far riaffiorare un altro mondo, un altro calcio, un altro sport. Un’altra società, un’Italia in bianco e nero, con le partite nei giardinetti, con i giacchetti che sostituiscono i pali delle porte oppure le interminabili sfide negli oratori. Ma anche un modo per ricordare lo stadio, inteso come luogo di socializzazione, intriso del profumo dei panini con la frittata, mentre si conversava con il vicino di posto”.

Quello striscione, con scritto “Silenzio”, è sempre lì. Perché è il punto di avvio “di un’analisi filosofica sull’importanza del silenzio stesso. Che è il silenzio di Agostino, ma anche di qualsiasi altro individuo. Così ho sviluppato la cosa. Noi siamo artisti, non psicologici. Ho preso spunto da questo aspetto per modellare una favola poetica, provando a spiegare quello che è stato Agostino”. Il motivo? “Mi sono sempre interessate le storie degli ultimi, dei dimenticati. E, anche grazie allo spettacolo, oggi se ne parla molto di più di Di Bartolomei”. Che resta, a imperitura memoria, un personaggio non banale: “Aveva una grandissima personalità, era coerente, dava peso alle parole. Era un intellettuale: se aveva del tempo libero, per esempio, ne approfittava per andare alle mostre”.

Su YouTube restano le tracce di chi fosse Agostino Di Bartolomei. Come quell’intervista – prima di un match – rilasciata a Giampiero Galeazzi, quando mancano tre giornate alla fine nella stagione 1982-1983. “L’equipaggio chiede: andremo in porto o no?” il quesito del giornalista. Secca la risposta: “In porto sicuramente, vediamo di arrivarci con il vessillo”. Quelle parole riecheggiano nello spettacolo di Ariele Vincenti: “Sono evidenti l’umiltà e l’abnegazione – insiste – sono pensieri scolpiti nel marmo, che pesano come macigni. Ma allo stesso tempo corredati dall’eleganza. È un parlare forbito, che ha dietro un pensiero”.

Giovedì pomeriggio Ago, capitano silenzioso sarà in scena, alle 18,30 a San Lorenzo, quartiere romano, in via dei Volsci, al bar Marani. E ancora: il 15 giugno a Pistoia, il 16 giugno a Largo Spartaco (Roma), il 18 giugno a Velletri, il 26 luglio a Belmonte Piceno (Fermo), il 27 luglio a Villa Farinacci (Roma).

Ariele Vincenti, mentre va avanti, non fa che rimarcare l’attenzione palpabile del pubblico, che sia di fede romanista o meno. “Ogni volta vanno a braccetto rispetto e curiosità. Lo spettacolo, dopotutto, è universale. Tutti noi temiamo di rimanere soli. La fine che ha fatto Ago rappresenta, se vogliamo, una nostra paura. Ma c’è anche il bello: il quartiere di Tor Marancia, i sapori di una volta, i cinematografi, la vita di strada”. Nel mezzo, la fatica di portare in sala un monologo non certo semplice: “Trattare determinati argomenti, come la depressione o il suicidio, ha un rischio: quello di essere retorici. Pancia e cuore, ok. Ma ci vuole anche altro. L’essere romanista mi ha aiutato, però ricordo che svolgo questo mestiere da più di 20 anni: ciò mi ha consentito di applicare al ricordo di Ago le regole teatrali. Io andavo allo stadio, all’Olimpico come in trasferta, giocavo all’oratorio, a Roma, nel quartiere di San Saba. Sussiste un personale background, vero, ma non è sufficiente. A questo ho dovuto aggiungere i movimenti, le luci, la regia, un palcoscenico, uno striscione e una sedia, dove incanalare le emozioni nella maniera più corretta possibile. In parole povere: secondo me tutte le storie ci appartengono. Eppure, in qualità di attore, è fondamentale entrarci in modo educativo, a piccoli passi”.

Passato e presente, un intreccio che fa riflettere: “Pensiamo alla finale di Coppa Campioni, del 1984, tra Roma e Liverpool. Forse, chissà, un giorno potrà ricapitare che queste squadre si possano nuovamente affrontare nel capitolo finale di quella che oggi è chiamata Champions League. E che ci siano dei penalty, sotto la Curva Sud. Ma non potrà più accadere di avere cinque rigoristi (Agostino Di Bartolomei, Bruno Conti, Ubaldo Righetti, Francesco Graziani, Odoacre Chierico, che però non calcerà mai) della stessa compagine e nati nel raggio di cento chilometri l’uno dall’altro. Se vogliamo, anche questa è una metafora sulla globalizzazione e su come adesso sia cambiato il calcio”. Con una postilla, che vale più di mille parole: “Avevo l’esigenza, personale, di evocare un eroe tragico, una brava persona, un vero capitano. Agostino Di Bartolomei è il mezzo per veicolare il messaggio del silenzio. Perché dentro al silenzio si nascondono umiltà e sensibilità”. Infine, la domanda delle domande: che cosa potrebbe dire Agostino Di Bartolomei sullo spettacolo? Il resto vien da sé, senza troppi fronzoli. Come da copione: “Probabilmente, grazie. Come faceva con chi lo fermava per strada. Ne sono certo”.

Aggiornato il 04 giugno 2024 alle ore 17:13