Visioni. “Palazzina Laf”, il folgorante esordio di Michele Riondino

Michele Riondino mette in scena magistralmente la rabbia e l’impotenza di un popolo. L’attore tarantino, al suo debutto dietro la macchina da presa, racconta il senso di profonda ingiustizia che si consuma all’interno di una fabbrica. Palazzina Laf, ispirato al libro Fumo sulla città (Feltrinelli, 2022) dello scrittore Alessandro Leogrande (a cui il film è dedicato), è un’opera acerba e insieme folgorante. Nasce dall’urgenza di narrare, attraverso gli stilemi del migliore cinema civile italiano, la drammatica vicenda del complesso industriale dell’Ilva di Taranto dalla prospettiva di un irresponsabile Giuda. Il film, prodotto da Carlo Degli Esposti e Nicola Serra, presentato in anteprima alla 18ª Festa del cinema di Roma 2023 nella sezione Grand Public, arrivato in sala grazie a Bim Distribuzione, ha vinto tre David di Donatello 2024 (Miglior attore protagonista a Michele Riondino, Miglior attore non protagonista a Elio Germano, Migliore canzone originale, La mia terra di Diodato).

È il 1997. All’Ilva è avvenuta una morte sul lavoro. Il punto di vista narrativo è quello di Caterino Lamanna (un mimetico Riondino), un apatico operaio quarantenne dai modi bruschi che lavora nell’acciaieria. Vive in una masseria fatiscente insieme ad Anna (una tenera Eva Cela), una giovane ragazza albanese. Giancarlo Basile (un luciferino Germano), dirigente dell’Ilva, recluta Caterino per “farsi un giro e dirgli quello che succede” in fabbrica e resoconti, soprattutto, l’attività del sindacalista Renato Morra (un tenace Fulvio Pepe), che infiamma gli animi degli operai. In pratica, i vertici aziendali decidono di utilizzare Caterino come spia per individuare i lavoratori di cui liberarsi. Così, l’operaio comincia a pedinare i colleghi e a partecipare agli scioperi. Viene promosso e gli viene affidata un’auto aziendale (una malmessa Panda). Caterino, non comprendendone il degrado, chiede di essere collocato alla Palazzina Laf, dove sono confinati i dipendenti più scomodi che non accettano il demansionamento. I lavoratori ingannano il tempo giocando a carte, pregando o allenandosi. Il luogo considerato paradisiaco diventerà, anche per l’operaio, un’alienante condanna all’inazione.

Il coraggioso film di Riondino, omaggiando apertamente la poetica di Elio Petri, racconta uno dei più gravi casi di abuso in ambito lavorativo della storia italiana. Il titolo dell’opera riprende il nome dell’omonima palazzina, adiacente al Laminatoio a freddo, di cui si raccontano gli eventi, nella quale negli anni Novanta i proprietari e i dirigenti dell’Ilva di Taranto, all’epoca dei fatti già del Gruppo Riva, decidono di confinare gli impiegati che si oppongono alla “novazione” del contratto, ossia al declassamento a operai. Una pratica illegale nonché pericolosa per gli stessi lavoratori. L’opera del cineasta si focalizza su un crumiro. Un traditore che si rende complice di una storia ignobile. Il modello recitativo a cui si ispira Riondino è quello della “rabbia proletaria” di Gian Maria Volonté. Ma senza le inevitabili sovrastrutture ideologiche. Il copione, firmato dallo stesso Riondino insieme a Maurizio Braucci, punta sulle grottesche dinamiche relazionali della storia. La regia realistica, che si mette al servizio della scrittura e della direzione degli attori, in alcuni frangenti esprime anche degli slanci onirici. Tuttavia, un’eccessiva brevità dell’opera crea nocumento all’approfondimento psicologico del personaggio principale. “Ilva is a killer” si legge sulla pensilina di una fermata del bus. È una dichiarazione d’intenti. Non solo sul piano fisico (le morti per malattie causate dalla vicinanza agli altiforni), ma anche sul piano morale (la volontà di umiliare i lavoratori).

Aggiornato il 10 maggio 2024 alle ore 18:15