Non avendo conosciuto mio padre, che finì l’esistenza mesi dalla mia nascita, cercai padri, e da bambino erano questo, quello, quell’altro, da ragazzo aspirai a padri consistenti, una sorta di “ideale dell’Io”, come scrivo nel libro La memoria dei ricordi (Editore Armando). Ebbi però un padre eterno, non Dio, un uomo al quale fui talmente appassionato da leggere quanto di Lui veniva scritto, da mantenere in giacca la biografia concepita da Romain Rolland (edizione tascabile Universale Rizzoli), e da voler conoscere il conoscibile della Sua creazione musicale. Considero Ludwig van Beethoven il più riuscito congiungimento dell’arte con la filosofia. Precisamente, la musica in Beethoven manifesta concezioni della vita. Parla, argomenta, è musica dialettica, non si limita alla bellezza melodica o armonica: esprime una concezione sulla vita, è musica concettuale.
Intendiamoci, pure Johann Sebastian Bach è un musicista concettuale. Bach però delimita la sua concezione alla religiosità (mi vergogno a semplificare in tal modo ma non è possibile in circostanze di una Nota diversamente), Beethoven spazia nell’umano. Quanto di più tragico sopporta, subisce l’uomo; quanto di più volitivo si impone in risposta l’uomo. Beethoven assomma gli estremi: il massimo di potenza, la massima derelizione. Ora sembra così disperato da crollare poi insorge: vuole vivere, si trae per i capelli, scatena forza massima. Questo andamento – vita-disfatta, risorta-vita – non meccanico ha intarsi di una serenità che riempie, un ascolto della totalità armonica. Il pieno orchestrale di Beethoven suscita un non so che dire: se ascolti il secondo tempo del Quinto concerto per piano, non so, è la centralità del suono. Il suono centrato, il “suono”, come talune voci che manifestano l’interiorità. Musica baritonale, calma, solenne però laica, il sacro laico, totalmente mondano.
Di recente, mi sono preso di passione per l’ultimo tempo della Terza sinfonia: suono rotondo, maestoso, senza oltre. Riempie, avanza lento in pienezza, nessuna esagerazione, nessuno sforzo: potenza sicura. Credo che un degno direttore si ritenga padrone del mondo a dirigere questa corrente melodico-armonica, un comandante di nave nell’Oceano. Sarebbe interessantissimo confrontare il “maestoso” in Beethoven, Bruckner, Mahler.
Sono in difficoltà, non so dove prendere, in passato ero abbacinato dalla Sesta sinfonia, eseguita da Arturo Toscanini, il disco con il cane, l’apertura ariosa del primo tempo e quel vagheggiamento eccitato del secondo tempo, un piccolo delirio estatico di amore del vivere. No, non intendo trasformare la musica in pensiero: vi è la specificità del suono, della strumentazione, dei “motivi”, delle arie. Ma in Beethoven la relazione musica-pensiero è consustanziata, non è esclusivamente bella musica. Anzi, talvolta non lo è, Beethoven, specie in ultimo, è “dissonante”. Riduco la notazione a tale dicitura.
Incredibilmente, ho conosciuto tardi la Nona sinfonia. L’inizio michelangiolesco del primo tempo. Credo che gli uomini sarebbero meno pazzi, scontenti, rissosi godendo di quel che altri uomini hanno donato. Ammirare in maniera sana rende magnifica l’esistenza. A proposito, Lenin (!) non voleva ascoltare bella musica in quanto lo strappava alla violenza rivoluzionaria! Tuoni sereni, è possibile un tuono sereno? Ecco, l’inizio del primo tempo, musica fatta da Giove, musica colossale, montagne in spostamento, l’orchestra interamente mobilitata, imperiosa vuole suonare in ogni strumento. Esprime la sua potenza, il terremoto, armonioso, l’apologia della volontà, assai più dell’inizio della Quinta sinfonia. Poi, come avveniva a Beethoven, la caduta nella mestizia o una sorta di delirio di felicità non raggiunta, il secondo tempo, aspirazione, tensione, ma non vi è presa, sfugge ciò che vorremmo.
Il terzo tempo è messo come un inciampo: è deliberatamente ripetitivo, la musica inciampa, torna, cozza, sempre ostacoli. No, così non è possibile vivere, occorre supremizzarsi, occorre gettare la volontà contro l’ostacolo, spezzare la muraglia della negazione. Non basta la felicità, ma qualcosa di assai possente: occorre la volontà della gioia, la volontà della gioia. Ecco quel che può superare le scorie dell’esistenza svalutata, scadente, litigiosa, nemica di sé. Occorre che l’umanità prenda coscienza di essere individuata in ciascun singolo, accomunata come umanità, come specie. La gioia del singolo nella totalità umana.
Beethoven ha la massima intuizione nella storia della musica. Per rendere chiarissimo il Suo fine, fa parlare la sinfonia. Vuole che sia compreso il Suo scopo. La gioia dei singoli nell’insieme della totalità della specie. Tenore, soprano, contralto, baritono, il Coro, a squarciarsi la gola, canto che diventa grido da spaccare la mente, da penetrare nel sangue. Pedagogia estetica. Dovete amare la vita, uno ad uno, insieme. Umanità, ama la vita. Gioisci di essere viva! Uno squallore non fare di queste opere culto a favore della bellezza dell’esistenza. Non si riesce a comprendere come gli uomini, avendo a disposizione tale godimento, si dedicano al rovinarsi. È anche perché lo ignorano! Ma altri uomini si dedicano a onorare chi onora l’umanità. Che nelle scuole sia estranea la musica la giudico una privazione irriflessiva.
Beethoven compose la Nona sinfonia nel periodo infelicissimo della sua infelicissima vicenda. Il nipote Karl – che Egli amava estremamente – lo respingeva e conduceva sorte che Beethoven orripilava. Eppure, Ludwig van Beethoven alla preziosissima vita mai disse “no!”.
Aggiornato il 09 maggio 2024 alle ore 19:20