Attraverso l’opera di de Chirico, l’artefice della pittura metafisica, la scoperta dell’ignoto, la ricerca di una nuova realtà e dei percorsi verso la libertà individuale
“Ogni artista degno di questo nome è teso sempre con tutte le sue forze verso il progresso, cioè verso la perfezione. La perfezione, meta suprema, ideale irraggiungibile, che brilla come un faro sui mari procellosi dell’arte e che spinge il vero artista a operare sempre meglio, a essere sempre più soddisfatto della sua opera, per essere più felice. Infatti anelare verso la perfezione è come anelare verso la felicità, verso la suprema felicità, che è un miraggio, come un miraggio è la perfezione, almeno in questa nostra avventura della vita”. È una frase tratta dalle Memorie della mia vita, la straordinaria confessione letteraria, che ripercorre le intuizioni geniali, i tormenti e gli incontri decisivi di Giorgio de Chirico (1888-1978), un maestro del Novecento.
De Chirico, artista straordinario, pittore, scultore e scrittore, è conosciuto soprattutto come creatore della “pittura metafisica”. Lo stesso, tenendo conto dell’interpretazione della soggettività umana, elabora un suo concetto dell’arte, appunto metafisica, con la raffigurazione di oggetti reali, presenti anche se realizzati nell’assenza di senso e significato evidenti, che vanno cioè al di là dell’apparenza per evocare altre realtà. Nei suoi dipinti utilizza simboli noti e figure mitologiche ricollegandoli nel moderno mondo urbano e industrializzato con lo scopo di restituire significati multipli, ambientazioni e contesti diversi dall’ovvietà. Dietro quella superficie piatta d’un ipotetico oceano, si attiva l’atteggiamento di ricerca come rivelatrice di profondità, ampliando il raggio d’azione.
Ma l’impossibilità di conoscersi profondamente e comprendere a pieno la natura dell’oggettualità lo porta a esplorare e capire per svelare se stesso, passando all’esaltazione senza limiti della creatività umana, attraverso un rifacimento fantastico delle cose, di mondi diversi dal mondo attuale. In tal modo formula la propria voglia di grandezza verso l’eternità mediante un’arte che è manifestazione astratta di concetti. Le cose e le visioni paiono agire nella mente come rivelazioni inaspettate, il cui significato è altro da quello corrente cioè metafisico. Ma al di là di tutto, il suo percorso artistico lo vede sempre un ricercatore di enigmi, un esploratore dell’ignoto. Il treno, metafora del viaggio in un’atmosfera di silenziosa attesa, allude al concetto dell’arrivo e della partenza, come se la vita fosse rinchiusa in un mistero profondo. Un tutto avvolto in un’atmosfera immobile, mentre i colori, luminosi e vivaci, contribuiscono a creare una dimensione onirica.
De Chirico manifesta il tempo con la raffigurazione degli orologi come sottolineatura del tempo attuale, mentre utilizza le ombre per rappresentare il tempo passato e le architetture come ponte tra passato e futuro. La sua vena burlesca lo porta a ritrarre le cose attraverso una voluta confusione ottica, come nell’inserimento del quadro nel quadro, dove unisce due livelli di realtà, o attraverso le incongruenze dimensionali, o nella passione per i manichini senza volto. Così la figura dell’archeologo, preso a soggetto in più opere, utilizza l’idea del manichino impersonale, contenitore, che dentro di se tutto custodisce. I temi dei manichini e le suggestioni metafisiche sono arricchiti dalla presenza dei riferimenti all’antichità greca. Egli prosegue dando vita a visioni sempre più ironiche, come nel Ritorno di Ulisse, dove quest’ultimo, dopo tanto peregrinare, si ritrova su una barca a remi e termina il suo viaggio all’interno di una stanza.
L’arte non vuole riprodurre l’esistente in natura, ma tende a trasmettere una più autentica consapevolezza di sé e, navigando tra il mondo del vero e del falso, mediante l’esperienza estetica rivela il fondo delle cose, l’enigma profondo da risolvere. Vi è un continuo alternarsi di interni ed esterni, arrivi e partenze, realtà e finzione in cui c’è il rischio di perdersi. Ma l’oggettualità nella rappresentazione, allontanandosi dalla logicità dell’apparenza, assumerà nuova collocazione sotto forma di segni capaci di suscitare sensazioni controverse, ombre allungate, statue di pietra, manichini a ricordo dell’umano, assorti in atmosfere silenziose e pungenti. L’artista, nella rappresentazione, si sente testimone della sua malinconia che trova comunque appagamento vestendosi di colori e spaziando tra illusioni e costrizioni al di là del quadro, nel regno della musicalità e nel rincorrersi di segni come in un illusivo spazio teatrale. Egli prende così coscienza del fatto che l’autentica trascendenza è nel gioco con cui si rompono gli ingranaggi per poi ricostruirli finendo per accettare il gioco del destino come senso ultimo di ogni costruzione, che purifica e placa la volontà dell’eterno e l’angoscia di fronte al mistero dell’esistenza.
(*) La prima è una riproduzione dell’Autoritratto (1922) di Giorgio de Chirico
(**) La seconda è una riproduzione del quadro Ettore e Andromaca (1917) di Giorgio de Chirico
Aggiornato il 26 aprile 2024 alle ore 12:06