Che cosa sarebbero le Cattiverie a domicilio? Secondo l’ultimo film omonimo della regista Thea Sharrock (nelle sale italiane da oggi, distribuito dalla Bim e da Lucky Red), si tratta di un “hot anonymus”, ovvero di un flusso prima limitato a un singolo bersaglio, poi veicolato in tutte le direzioni, di lettere anonime sconcissime, quanto banali e molto limitate nel vocabolario dell’osceno, che prendono di mira gli abitanti di un piccolo centro della costa inglese. La storia vera, accaduta un secolo fa, parla quasi esclusivamente al femminile e i due focus principali, contrapposti nelle loro polarità, hanno i volti rispettivi di due attrici bravissime. Olivia Colman è Edith Swan, un vero cigno nero, di nome e di fatto, mentre Jessie Buckley interpreta Rose Gooding, ragazza madre con una figlia adolescente, presunta vedova di guerra, che convive morganaticamente con un giovane uomo di colore, provetto chitarrista. Edith rappresenta la classica zitella di razza ariana, rimasta a guardia della conigliera di famiglia, in cui hanno visto la luce undici fratelli, di cui due morti nella Prima guerra mondiale e gli altri lontani a cercar fortuna. Ed è lei ad accudire l’anziana madre e un padre-padrone ancora viventi. Lui, Mister Edward (un ottimo Timothy Spall), è uomo puritano di sicura fede che tiene schiava e sottomessa la figlia rimasta, in modo che non sfugga mai, per nessuna ragione, al suo mestiere ancillare di Cindarella.
E se disobbediente, per la figlia il castigo è biblico: copiare per decine di volte i passi della Bibbia in cui Dio ammonisce obbedienza al padre e alla madre. Ovviamente, Edith è tutta casa e chiesa e frequenta pochissime amiche di sempre, venendo però attirata dalla personalità della nuova arrivata, Rose, che è il suo esatto contrario per bellezza e indipendenza. Le atmosfere paesane del gineceo sono perfettamente ricostruite all’interno di una sorta di banda matura, tutta al femminile, composta da una fattrice che alleva maiali e galline (centotrenta chili di peso che non si muovono e carburano al mattino se non ingerendo un’adeguata dose di uova alla coque), e Mabel, un’antica signora molto anticonformista per la sua epoca, vera giustiziera nell’animo. Ora, in tutta questa bella atmosfera di annoiata routine quotidiana, tra pettegolezzi innocui e faccende domestiche che impegnano tutta la giornata, arriva come un fulmine a ciel sereno il venticello (o meglio, un tornado letterario) della calunnia e della diffamazione. Alle colonnine di posta del quartiere qualcuno imbuca lettere oscene all’indirizzo di Edith che, malgrado la sua grande simpatia e amicizia con Rose, inizia a sospettare proprio la giovane ribelle anticonformista di essere l’autore delle lettere anonime. Confortata dal padre-padrone, che esige immediata giustizia riparatrice e risarcitoria, Edith si rassegna a denunciare Rose alla polizia.
Ora, direte voi che vivete in questo super tecnologico e numerizzato XXI secolo, “che problema c’è?”. Il caso è risolto con una semplice, definitiva perizia calligrafica, sempre che la povera Rose sappia leggere e scrivere, come sfortunatamente è (per lei). Troppo facile e scontato: così sono capaci tutti. E invece no: per fortuna che c’è sempre “l’Istituzione”, come l’ufficio locale di polizia, con il suo ufficiale batraciano dal carattere tromboneggiante, assistito da un servile, pedante e ossequioso sottoposto, il Constable Papperwick, che assieme fanno il capolavoro di ribaltare l’ovvio, per cui arrestano tout court la povera Rose, senza altra prova che quella della parola degli Swan. Per fortuna che nell’ufficio è stata da poco assunta la donna-poliziotto di colore, Gladys Moss (una brava Anjana Vasan), figlia di un poliziotto deceduto e molto stimato in vita, che aveva onorevolmente prestato servizio pluridecennale a beneficio della comunità. La cosa curiosa è che, in quel periodo, alle donne in divisa non era consentito di svolgere inchieste, ma soltanto di assistere le detenute prese in custodia e le loro famiglie. Ora, indovinate chi nell’ufficietto di polizia era più intelligente di tutti? E sì, proprio Gladys.
Quindi, potete giurarci che sarà lei a unirsi e tramare a fin di bene con la banda stagionata al femminile, per incastrare la vera colpevole e liberare Rose da tutte le accuse. Ma, nel frattempo, ecco che la storia ci propone un diverso, pregnante spettacolo di un altro attore istituzionale collettivo: i tribunali di Sua Maestà. Dove per fortuna c’è una difesa che sa fare il proprio dovere, e un’accusa che si comporta come un padre-padrone togato, coltivando e giudicando le apparenze contro la sostanza. Mentre Rose, con la sua aria scanzonata e irriverente, si diverte dal banco degli imputati a portare molta aria nuova nella muffa giustizialista, in aule concepite più per assolvere le Signore Swan, che per accertare l’andamento effettivo dei fatti e prendere in esame quelle prove trascurate che da sole gridano vendetta. Ottimo spaccato della società piccolo borghese e provinciale dell’epoca, in cui però l’humor inglese è il vero protagonista per immagini e dialoghi di tutta la faccenda, come il bellissimo di dietro femminile mostrato da una Rose in fuga per i vicoletti del quartiere ai poliziotti che cercano di fermarla.
Aggiornato il 18 aprile 2024 alle ore 10:31