La quotidiana mancanza è veramente un libro malinconico e obliquo. Forse per certi versi anche tragico, in cui si affrontano, con grande coraggio intellettuale, snodi culturali di portata epocale con leggerezza confidenziale e a tratti diaristica. In questo breve ma denso saggio, Fabio Bazzani, che ha insegnato per anni Etica e Storia della filosofia morale presso l’Università di Firenze, si misura infatti con la prevalente liquidità categoriale dell’epoca in corso e con l’omologazione delle élite intellettuali che la caratterizza: se infatti “l’imbecillità dei popoli è dato storico costante, l’imbecillità delle élite è fenomeno relativamente recente, peculiarmente tardo-moderno”. Il semplificarsi delle competenze richieste oggi per far parte di tali élite non esige più “un cursus honorum fatto di studi, letture, esperienza affinata nelle professioni”. Chiunque può fare il ministro o il professore universitario: basta che sia ben ammaestrato “nella proceduralità con la quale si può soddisfare ai bisogni di quella dinamica. Cambia la soggettività; il soggetto è la procedura in sé”. Nella società di massa tardo-moderna, “nella nuova era della rivoluzione industriale elettronica e telematica”, si sono infatti prima sperimentate e poi consolidate nuove forme di asservimento grazie alle quali i servi sanno sempre meno di essere tali: “Le catene non appaiono più e non c’è alcun potere personale che le imponga e, d’altra parte, lo stesso potere personale sussiste solo come residualità storica ridotta a simulacro, a finzione, a vuoto involucro ideologico”. In questo nuovo tipo di società, così come in parte Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno e altri filosofi di scuola francofortese avevano preconizzato, i veri padroni sono diventati invisibili e lo stesso potere “si è trasformato in un mero sì impersonale”, in una diffusa falsa soggettività in grado d’indurre “sciami d’egotismi autoreferenziali che dietro l’apparente liberazione del soggetto ne veicolano la piena reificazione”.
Nel quadro di questa nuova anonimia culturale, nella cosiddetta civiltà occidentale “la parola onore non è più di casa”, e anzi risulta implicitamente sconveniente ed è di per sé inattuale”, perché “si pone oltre questa epoca e oltre la logica di questo mondo”. Il solo pronunciare questa parola fornisce una testimonianza del desiderio di non lasciarsi irretire da una chiacchiera pervasiva e quasi automatica, dalla diffusa proliferazione di cliché capaci di riprodursi indefinitamente, anche quando provocano evidenti corto circuiti logici intellettualmente imbarazzanti. Mentre l’onore richiede infatti la presenza di un comune sentire, di valori stabilmente condivisi, di un’identità culturale che sappia nutrire un orizzonte di vita, tutti questi fattori sembrano oggi sempre più incerti, se non in rapida dissoluzione, lasciando a tali cliché ampia libertà d’azione in un vasto campo predisposto ad accoglierli acriticamente. Questo fenomeno dipende da varie concause, ma l’industria politico-culturale e la finanza ormai globale hanno probabilmente contribuito in modo decisivo a far introiettare progressivamente ai popoli “l’idea che sia perfettamente logico e naturale perdere se stessi”, per acquisire progressivamente “la consistenza che può derivare dalla fruizione di pacchetti di comfort e divertissement”. In questa corsa generale a perdere se stessi, ciascuno sembra trovare “il proprio tornaconto nell’abominio del proprio annullamento: non devono più esservi popoli distinti, né differenziate individualità. L’equivalenza deve riguardare anche il più intimo di ciascun popolo e di ciascun individuo. L’equivalenza deve riguardare anche la sessualità. Anzi, soprattutto questa, poiché, come la Chiesa da secoli insegna, è proprio su questa che si deve intervenire se il progetto di colonizzare la vita vuol risultare efficace. Sferrato l’attacco alla identità sessuale, anche ogni altra identità, come in un effetto domino, verrà meno”.
Una volta abolita tale identità, l’uomo medio diverrà perfettamente fluido, compiutamente ricettivo di modelli e stili di vita eterodiretti, e “si identificherà finalmente con la propria medietà e la propria fluidità evitando come una fastidiosa pietra d’inciampo quel che resta della sua esperienza più propriamente individuale”. L’esperienza del proprio “onore” sarà sempre più desueta e rimossa, e con essa quella condizione che consente a ogni individuo di creare una distanza rispetto alla propria dimensione ferina e gregaria per ritrovare sé senza assimilarsi a una pervasiva e trionfante anonimia. Questa oggi si manifesta in molti modi, sottolineati spesso da quell’istintiva reazione di opporvisi in un modo irrazionale e immediato, facilmente riconoscibile e non meno gregario. Tra questi modi, quello di apporre delle note distintive sul proprio corpo, quali appigli metallici o qualche effigie in grado di marcare una differenza, rivela probabilmente più di qualsiasi altro la profonda esigenza di essere, nonostante ogni omologazione che ci pervada, comunque individui portatori di qualche tratto distintivo altrimenti impercettibile, oltre che di un simulacro dello smarrito sentimento dell’onore.
Nell’esperienza dell’onore c’è infatti, secondo Bazzani, sempre uno scarto rispetto “all’essenziale umano belare di un gregge indistinto e astrattamente migrante”. L’identità di un popolo, in cui soltanto può radicarsi il suo onore, non risiede infatti in spazi fluidi o indistinti, “ma nel focus domestico di una cultura che si forma ripetendosi nei secoli e che cresce grazie ad innumerevoli, microscopici, minimali gesti quotidiani”. Al contrario di quanto caratterizza l’esperienza concreta dell’onore, oggi la società sembra invece sempre più sprofondata in una servitù volontaria, nella “febbrile attesa di una Grande unica immagine, di un Grande volto indistinto, il cui solo baluginare carica di entusiasmo tutti quegli uomini che non hanno preso distanza da se stessi”. Ogni singola individualità sembra essere irresistibilmente attratta da questo volto indistinto e ogni forma di identità pare svanire “nelle figure della sistemica impersonalità che si sostituisce all’essenziale”. Anche la nozione tradizionale di “autenticità” sembra aver oggi perso ogni plausibile significato, e forse solo la capacità di amare conserva testimonianza di quella capacità di prendere le distanza da sé e dalla propria complessione ferina che percorre come un filo rosso sia la storia della cultura occidentale sia di quella orientale: l’amore è infatti “la dimensione più autentica dell’uomo che ha preso la distanza da sé, la forma massima dell’onore, quanto di più significativo e pesante possa esservi in un sentire, in un pensare e in un agire”.
È quella forza “che sollecita alla filosofia” e delinea “una speranza futura oltre la morte”, in quanto è in grado di liberare dal proprio autoinganno e di dischiudere in noi lo stesso desiderio di un’emendazione. Come tuttavia si accennava, in questa breve ma densa opera di Fabio Bazzani i tratti diaristici e i ricordi salienti di un’esistenza si succedono spesso in modo rapsodico a considerazioni rigorose e coraggiose, testimoni, appunto, di una percezione dell’onore mai assopita. I ricordi degli amici, e in particolare di quelli con cui l’autore ha condiviso un tratto del proprio apprendistato intellettuale, sono forse, insieme a quelli della madre e del padre, tra i più significativi. Giuseppe era uno di questi amici. Come ogni uomo che avesse preso le distanze da sé attraverso il proprio sguardo obliquo sul mondo anche Giuseppe aveva dovuto combattere “con la propria doppia natura terrena e celeste, visibile e invisibile”. Anche lui, come ricorda Ludwig Feuerbach, era stato la prova che l’individuo è “un conflitto in sé stesso in conflitto con se stesso”. Nel rileggere di tanto in tanto alcune pagine del suo amico, “per stargli vicino e per tentare di capire ancora qualcosa”, Bazzani osserva che Giuseppe “poteva parlare di qualsiasi cosa, poteva riflettere sulle mille vicende del mondo” in una sorta di autoconfessione danzante, prestando sempre ascolto a quanto chiama al sé stessi per scioglierlo poi “in una vita che dimentica il sé stessi”.
Si tratta di un modo di concepire la responsabilità filosofica di un intellettuale ben diversa da quella propria di chi pensa che essa consista nel “fare i conti col mondo e con l’uomo”. Questo “fare i conti con le masse infatti istupidisce”, così come istupidisce il darsi ostinatamente daffare “con gli straccioni dei salotti politici e letterari e con il loro pruriginoso senso del politicamente corretto”, o con i riempitori delle nostre cattedre universitarie, “con quella lutulenta vanità accademica che nasce e muore in se stessa, con quelle figure filosofiche ministeriali che riducono produzione e trasmissione di sapere a cialtronesca managerialità rampante, e che a barlumi intermittenti d’intelligenza, competenza e morale (sempre comunque adeguate all’occorrenza del momento) sostituiscono le briciole illusorie di un sistema al tramonto: gente, questa, come ricordava Adorno, che al cogito ergo sum di Cartesio sostituisce l’autoritario e beota sum ergo cogito, implementando così la fuffa con la fuffa, nel sacrosanto disinteresse di tutti, nell’ossequio, comunque, di una procedura altrove decisa”. Pur essendo scomparso prematuramente, questo caro amico ebbe almeno la fortuna di morire dopo che al soglio pontificio “lo Spirito santo, con formidabile strategia di marketing, fece ascendere il fantasmagorico fenomeno multimediale Jorge Bergoglio”. Giuseppe, decisamente ateo, poté “così gustare in pieno il lento disgregarsi della Chiesa di Roma grazie al sistematico operare di quel Papa che alla denuncia della colpa di essere cristiani e occidentali ha destinato la propria missione terrena”.
Bazzani racconta però anche di Walter, un altro e più giovane amico, il quale gli aveva scritto in alcune mail “di non trovar più valore nello scrivere di filosofia né in qualsiasi altra produzione intellettuale”. Walter era giunto infatti a credere che l’importanza sociale e storica dei filosofi si fosse oggi ridotta a “meno di zero”, in quanto ormai “ciechi di fronte alle forze reali che ci stanno di fronte”. Sembrava anche a lui che la logica del mondo si fosse trasformata in un sistema perfettamente funzionante, quasi in un nuovo patto sociale in cui la ferinità umana tecnologicamente irreggimentata pareva ormai “l’unica modalità di preservazione della sopravvivenza, pagata in termini di libertà, creatività, fantasia, pensiero critico, soggettività stessa”. In un quadro così devastato, la filosofia gli sembrava ridotta “a radicale impotenza, ad esercizio di individuale intelligenza, a stile linguistico”. Tutti e tre gli amici rivendicavano invece per la filosofia, seppur in modi diversi, “la dimensione dell’eccedenza, dell’eccentricità rispetto alla logica del mondo senza terra”. La filosofia appare loro come un promontorio sospeso a una distanza che consente di osservare, a un tempo, il proprio paesaggio familiare e il mondo, come un’escrescenza della storia e della propria vita da cui è forse ancora possibile avere di entrambe una visione d’insieme.
Nel suo spazio distanziante, nella luce bianca di un’alba o in quella di una notte blu, nei suoi momenti più chiari e conoscitivi come in quelli più malinconici e obliqui, essa è stata in grado per secoli di conservare alle parole la loro capacità di rinnovarsi. Oggi, viceversa, pare irretita dal voler riprodurre “occasioni consuete che smarriscono ogni senso specifico” per dissolversi in una sorta “di perenne divertissement”, ad un tempo culturale, ideologico e mondano. Come l’amico Giuseppe, anche l’autore pensa “con categorie vecchie, disdegnando la moda del liquido, dell’incerto, del gender, del dono, del solidale, della sconfinata apertura alle identità altre”, ma il servirsi di categorie senili manifesta in loro una profonda e meditata intolleranza verso il dogmatismo degli slogan, verso la nuova religione del globalismo e il pensiero unico della dis-identità, e cioè verso “la perdita di qualsivoglia onore residuo”. Entrambi, hanno coltivato l’arte non facile del saper prendere le distanze da de sé e dalla propria complessione ferina per ridisegnare, in questa distanza, la centralità dell’umano rispetto all’inganno sempre più devastante e distruttivo di un mondo in cui l’anonimia delle procedure e la ripetizione coatta di poche note scontate, uguali a molte altre ripetute fino allo sfinimento, può assumere il sembiante di un messaggio palingenetico, di una rivoluzione culturale ben più vacua, e al tempo stesso più endemica e profondamente totalitaria di quella che veniva agitata all’inizio degli anni Settanta nei cortei maoisti.
Questa essenziale presa di distanza da sé e da qualsiasi propria presunta essenza, che ha le sue radici più profonde in Platone e che si ritrova in modi diversi tanto nel taoismo e nel buddismo così come nelle scuole filosofiche ellenistiche, costituisce la chiave di volta che consente di non perdere di vista la storia della civiltà cui si appartiene senza indulgere alla tentazione di volerla abolire: essa può essere infatti realmente compresa e accettata solo riconoscendo l’intrinseco onore che reca con sé e che si può cogliere solo ripensandola, esercitandosi a ruotare intorno ad essa il proprio sguardo, così da porla ogni volta in una luce diversa senza rinnegarla. Come Georg Wilhelm Friedrich Hegel ebbe occasione di spiegare più volte, ogni superamento (Aufhebung) è tale se conserva in sé ciò cui va oltre e dialetticamente rovescia nel suo opposto; ma si tratta, per ognuno, di uno sviluppo che è possibile realizzare solo mediante un continuo esercizio, attraverso un apprendistato proteso a trovare la propria peculiare distanza dalla società e dai paradigmi teorici in essa prevalenti. Senza questo continuo esercizio, ogni singolo essere umano è destinato a privarsi non solo di ogni possibile esperienza del proprio onore, ma persino a scadere in quelle forme di Cancel culture che oggi contrassegnano il massimo risultato di un’omologazione culturale imperversante e insieme la più arrogante concezione della storia cui l’umanità sia mai pervenuta, e che come tale, in virtù della sua intrinseca violenza, può essere solo fonte di altre future epocali tragedie, ancor più estese e aberranti di quelle che si sono dovute in passato affrontare.
(*) La quotidiana mancanza. Un libro malinconico e obliquo di Fabio Bazzani, Editrice Clinamen, Firenze, 2021, 76 pagine, 12,90 euro
Aggiornato il 02 aprile 2024 alle ore 17:54