Nelle dita di Maurizio Pollini la mente e quindi l’intendimento, l’interpretazione era – anzi fu – sconfinamento in territori dove nulla di esterno è esistito. Solitudine radicale prolungata, con la soggettività che si trasforma in oggettività e diventa un mondo a sé. Ultime Sonate, una meta senza fine, addio a qualsiasi ancoraggio, l’altro svanisce in solitudine. Mi inoltro nell’ancora più solo, un oltre illimitabile, il vuoto dietro, ai fianchi e innanzi a me. Eppure vado, mi inoltro, e la tastiera segna i miei passi, ogni nota un avanzamento nella solitudine, nel disancoraggio. Qualcuno, qualcosa, afferrare uno spuntone, niente: esclusivamente il procedere, il massimo distacco, l’assolutizzazione della solitudine.
Come Maurizio Pollini intendeva le estreme Sonate di Ludwig van Beethoven è filosofia pianistica. Mai la soggettività prigioniera nell’Io sono io e nessun altro ebbe espressione come in Beethoven e inteso dal pianista italiano. Per carità, diversi musicisti hanno inteso diversamente, ma questa solitudine che si inoltra nella solitudine – dico delle Sonate ultime di Beethoven – fu di Pollini. O meglio, la attribuisco a Pollini. Ogni aggiunta è un avanzamento nel distacco dal mondo, un’esistenza solissima che non dà conto ad alcuno e va dove va sperdutamente, irrevocabilmente sola. Un corridoio solitario ed infinito.
Certo, anche di Frédéric Chopin Pollini fu interprete scelto. Egli conferì al compositore polacco una levità di stella che fa movenze libere ,assorte, volatili. Assieme al direttore d’orchestra Claudio Abbado, Maurizio Pollini diede gioia alla vita. E resta il serio Riccardo Muti. Che le scuole e i conservatori non segnino posto a tali personaggi che danno vita alla vita rendendo la musica strumentale ed operistica, soggetto di ascolto programmato, è un mistero sigillato. Perdiamo oro di civiltà.
Sarà difficile ascoltare Maurizio Pollini sapendolo scomparso. Immalinconisce troppo.
Aggiornato il 25 marzo 2024 alle ore 11:32