Quando è che si può parlare di un film di “complessità due”? L’esempio più recente è May December, nelle sale italiane dal 21 marzo, per la regia Todd Haynes e l’interpretazione delle due attrici Premio Oscar, Natalie Portman (nel ruolo dell’attrice televisiva Elisabeth Berry) e Julianne Moore che interpreta il personaggio della vita reale che Elisabeth dovrà impersonare. Quello di Gracie Atherton-Yoo, cioè, al centro venti anni prima di un clamoroso scandalo nazionale, per essere stata una donna già sposata con figli che aveva sedotto un minore, Joe Yoo (un bravissimo Charles Melton, candidato al Golden Globe come Migliore attore per il film stesso), compagno tredicenne di suo figlio.
Da questa relazione “proibita” era nata una bambina, allevata poi in carcere da Gracie, che aveva successivamente sposato Joe, dando al mondo altri due gemelli, Mary e Charlie, un maschio e una femmina, sul procinto di coronare il loro sogno di baccalaureato, per poi andare al college. In questo caso, la doppia complessità nasce dal fatto che è la Settima arte, il cinema, a indagare i propri peccati narrando di se stessa. E, soprattutto, facendo un clamoroso mea culpa perché, nel caso della riduzione cinematografica e conseguente appropriazione delle storie e delle vite vere degli altri, i suoi meccanismi molto spesso agiscono come fiamme al vento che fanno bruciare rapidamente le stoppie. Provocando di conseguenza assai spiacevoli torsioni sui legami affettivi interpersonali e sui sentimenti umani, rispetto ai quali il cinema non vuole, né può esprimere la necessaria neutralità.
Soprattutto, come nel caso di May December, in cui nella finzione regia e produzione acconsentono a finanziare in loco a Savannah (piccola località marina della Georgia, dove risiedono i coniugi Atherton-Yoo) la missione di Elisabeth, affinché la sua presenza operi come uno scandaglio di profondità, riesumando attraverso testimoni diretti le circostanze del “fattaccio”. E qui, arriva la doppia complessità, dato che l’intromissione di Elisabeth nel vissuto quotidiano di Gracie, del suo ex marito, del figlio di primo letto e del suo avvocato, rende impossibile a chi è coinvolto saper distinguere tra “verismo” e “morbosità”. Infatti, che cosa viene fuori quando si tolgono i veli al non detto, in modo che l’incompreso maturi alla ragione, abbandonando la sua crisalide di bruco per divenire pensiero adulto e mettere le ali della libertà? E, soprattutto, che cosa accade quando si mette mano a un detonatore nascosto, seppellito negli anni dall’accavallarsi di eventi tumultuosi, per cui la presenza di un catalizzatore umano, esterno e intrigante, rende all’improvviso necessaria e non rinviabile la domanda: “Ma, per questa persona, io sono stato solo uno strumento di piacere?”.
Questo problema non secondario della gravitazione affettiva ha una sua “animalesca” metafora nella passione coltivata da Joe, per mettere in salvo le uova e i bachi di una bellissima specie di farfalla in via di estinzione. Lui, in metafora, è uovo e bruco e, ora, gli tocca lasciare le spoglie di prima, dove in quel bozzolo convivevano i suoi due gemelli più giovani, per affrontare una vita da solo, assieme a una donna molto più grande di lui, diventata già vecchia. E che cosa ci fa Joe, tenero e convinto animalista, assieme a Gracie accanita cacciatrice, che predilige innocui volatili come piatto forte a tavola? Può la forza del destino mettere assieme in assoluta armonia due anime così diverse, per il solo fatto che entrambi hanno dovuto combattere uniti contro un’intera società perbenista e puritana, cementando il loro legame soprattutto con la paura del mondo esterno, fatto di censura e di riprovazione per quella loro relazione amorosa?
C’è un’altra vita, per il Joe trentaseienne, un’altra relazione con una coetanea da mettere in parallelo a quella con Gracie, per non sentirsi “incastrato” per il resto della vita contro la propria volontà? E quali sconvolgimenti possono accadere all’interno di questo triangolo morboso Gracie-Joe-Elisabeth? Ovvero: che cosa accade quando il romanticismo finora coltivato del rapporto di coppia, custodito come una crisalide immatura dalla possessività di Gracie, diviene un semplice rapporto occasionale tra adulti per il sesso fatto con un’estranea, con cui se si vuole una vita parallela occorre confrontarsi? Ma, ancora: si può imitare su set il piacere morboso del godimento adulto, con scene intime che ricordano la tentazione di Eva (matura) con un Adamo imberbe o, ancora peggio, vestendo i panni mentali della protagonista al momento dell’atto lussurioso avvenuto tanti anni prima? È ricostruzione “verista” questa, o qualcosa che in Elisabeth (e nello strumento cinematografico in sé) rasenta l’orgasmo della perversione? Allo spettatore l’ardua sentenza!
Aggiornato il 15 marzo 2024 alle ore 13:04