Giustamente e necessariamente parliamo, scriviamo di libertà e di coloro che l’hanno difesa, affermata. Una valore che noi difendiamo e riaffermiamo. Ma esiste anche una libertà degenerata, degradante. Quindi non basta vantare la libertà, fare un vanto della libertà in quanto tale. Noi riteniamo che il nostro Continente stia cancellando il culto del passato, ma questo esiste e lo si trova nel presente. Ad esempio, non è che un individuo per essere adulto rinnega l’infanzia, posto che possiamo considerare la storia in questi termini.
La rivoluzione scientifica-tecnologica ha rasato il passato umanistico estetico, quasi che l’arte e l’umanesimo siano valori meno utili, anzi inutili. Il fine dell’utilità ha corrotto sia la libertà sia l’umanesimo. Stiamo commettendo l’errore di considerare l’utile lo scopo fondamentale della nostra esistenza. Ora, questo contraddice il nostro passato, il quale certo non trascurava l’utile ma lo connetteva al bello. Perfino al bene. Niente da dire contro la tecnica e la scienza, tutt’altro, purché siano utili a qualcosa che vada al di là della scienza e della tecnica.
Di recente, in un istituto nel quale svolgo seminari sociologici un docente di Informatica, Marco Munafò, mi diede modo di cogliere, nella sua attività, delle possibilità così strabilianti che sarebbe davvero insensato negare il valore alla tecnica. La scienza e la tecnica sono strumentali, altamente strumentali, meravigliosamente strumentali, ma non identificano, non stanno dentro l’uomo, non sono interiori. È l’uomo espressivo che manifesta la sua identità, la sua libertà, la sua capacità di dare forma alla realtà in maniera personale. La scienza e la tecnica sono anti-individualizzanti, non esprimono nulla di personale. Chiunque in qualsiasi parte del mondo si eguaglia a chiunque in un’altra parte del mondo. Una società che si circoscrivesse unicamente alla scienza e alla tecnica sarebbe anonima, con tutto l’immenso riguardo alla scienza e alla tecnica come attività strumentali.
Bisogna prendere atto che viviamo un'epoca dei-individualizzante. E questo è anche dovuto alla decapitazione del mondo umanistico. Voglio, dire per essere espliciti, che la libertà deve unirsi alla soggettività, all’espressività del singolo, all’uscita fuori di sé del sé: l’interiorità che si esteriorizza. E la democrazia che si collega alla libertà, in quanto dà diritto a ogni soggetto di manifestarsi, deve però manifestare la libertà, come detto, come soggettività. Insomma, coltivare l’individualità e i rapporti sociali come individui, non come se si costituisse una entità superiore all’individualità.
Leggere la vita degli altri arricchisce. Questo è l’umanesimo: partecipare alla società, individuo per individuo, valorizzare estremamente la breve esistenza che ci accompagna, e sostenerla vivendo. Di recente, ho letto un libro scritto da Graziella Lo Vano, la narrazione gradevolissima, pianeggiante di tante biografie, e, soprattutto, quella di Luigi Rizzo. Si tratta della Guerra mondiale, la Prima e dell’enorme pericolo che il nostro Paese subì giungendo ai limiti del crollo, ma risorgendo. Si trattava di luoghi italiani, di civiltà italiana, sotto le mani straniere. E in quel caso la libertà manifestava la sua dignità. Gli italiani volevano essere italiani, unirsi agli italiani, ripeto: la libertà si qualificava, manteneva in sé uno scopo, e lo scopo era degnissimo, e per questo scopo degno Graziella Lo Vano nomina dei protagonisti: Nazario Sauro, il medico Marina il cui cognome era deformato in Marinaz, le figlie di questo medico e soprattutto Luigi Rizzo.
Luigi Rizzo è un siciliano appassionatissimo fin da sempre di marineria, in una famiglia che vive il mare come navigazione e come imprenditoria. Studia a Messina, comincia il percorso degli onori, si distingue all’estero per il suo coraggio. Inizia a essere premiato con medaglie, ma nulla di che. Non esibisce, non vanta, non fa mostra del suo coraggio: lo usa quando è indispensabile. Torna in Italia e avviene l’evento terribile, la guerra. E con la guerra strumenti nuovi di distruzione. Lo strumento che Rizzo porterà alla gloria: delle piccole imbarcazioni capaci in silenzio di avvicinarsi alle grandi navi e colpirle a morte.
Ma la narrazione non tocca questi aspetti anche se li prepara, tocca gli aspetti del crollo italiano, della parte italiana che diventa per qualche periodo schiacciata dagli stranieri, la fuga. E narra l’amore contegnoso, all’antica, di Luigi Rizzo per la figlia del medico Marina, Giuseppina. La guerra impedisce, se non il matrimonio, almeno per il momento la consumazione del matrimonio. Luigi Rizzo è diventato indispensabile, compie ulteriori atti eroici avversi agli austriaci, e successivamente le imprese leggendarie delle quali Graziella Lo Vano esclude la narrazione: i grandi affondamenti di navi austriache insieme ad altri eroi fra cui Gabriele D’Annunzio e Costanzo Ciano.
Il finale è realmente malinconico. Una cagnetta, Fifì, che Rizzo aveva preso in conto amorevolmente, alla vista dell’imbarcazione del suo “padrone” che si reca alla guerra subito dopo il matrimonio, pur di raggiungerlo, si scaglia nel mare e perisce. Senza volerlo direttamente il libro (La laguna taceva, Armenio editore, prefazione di Giseppina Paterniti) è di una tale dignità e amore per la vita, per la vita degna, che uccide, ridicolizza il nichilismo anti-qualitativo. Quando siamo in presenza di ciò che è nobile e bello, respiriamo e amiamo la vita. Il peggio del peggio del peggio che possa accadere è rendere tutto sullo stesso piano: annientare la superiorità, non stabilire quel che alcuni hanno proclamato, che lo scopo dell’insegnamento. Ossia, ammirare il genio. Ammirare, ammirare, il soggetto deve tornare soggetto capace di ammirare. Un individuo capace di ammirare, di tornare alla capacità dell’ammirazione qualitativa. Questo non lo fa la tecnica né la scienza. Questo lo fa l’amore interiore che poi si può manifestare anche con la scienza e con la tecnica, ma è uno stato umanistico, interiore.
L’individuo deve trovare e ritrovare la passione personale verso scopi elevati, altrimenti non è che la vita sia nulla: è che noi la rendiamo nulla. Perché, invece di esaltare la qualità interiore esteriorizzata, ci stendiamo nell’ appiattimento, la pseudo-uguaglianza, lo sguardo al basso. Non cerchiamo di amare ciò che ci riempie di vita, ci colma di vita. Questo acconsentimento alla mediocrità, al tutto sullo stesso piano della comunità che teme qualsiasi disuguaglianza. E che porta non al grande nichilismo, che ha una sua enorme dignità, ma alla condiscendenza verso ciò che è basso. Ripeto, facilitato al livello minimo di sforzo, cognitivo ed estetico.
Bisogna ritrovare e rifondare il livello di ogni singolo individuo. La massa non vale più del singolo, solo perché è di maggior numero. Mai andare incontro alla massa, mai. É un piacere leggere libri su persone che possiamo stimare, perché – insisto – l’ammirazione verso ciò che vale colma la vita finché viviamo, quand’anche sotto l’ombra del nulla. Come ho scritto spesso, è inutile porre il problema di ciò che vale; quando la società ha perduto la disposizione spontanea alla qualità, non vale spingerla ad ammirare ma occorre tentare. Vi è qualcosa in natura che volge all’ammirazione di ciò che vale. Se si perde questa disposizione, non vi è più civiltà ma solo un mastodontico vivere insieme, sopravvivere insieme.
Il sociologo Georg Simmel precisò alcune disposizioni individuali e sociali che valgono specialmente nel nostro momento: la tipologia del cinico e la tipologia del blasé. La tipologia del cinico ha come obiettivo abbassare ciò che emerge, inficiare la qualità, negarla; la tipologia del blasé consiste nell’indifferenziato: tutto sullo stesso piano. E il piano è un piano piatto, il non valore assolutizzato. I pericoli della nostra epoca stanno in tale evenienza aiutata enormemente dal mezzo di comunicazione di massa, che si rivolge al maggior numero, e quindi cerca di “venire incontro”, come accennavo. Questo abbinamento può distruggere una civiltà.
A maggior ragione, occorre un risorgimento dell’individuo qualitativo, e a tal fine la cultura umanistica è fondamentale, perché costruisce l’uomo interiore. Al dunque, si respira a pieno fiato, leggendo La laguna taceva sia per le individualità rappresentate, sia per la idoneità espressiva di Graziella Lo Vano: scorrente, fluente, aggiuntiva. Così, riusciamo ad amare la vita, suscitando quanto vale essere amato. E riconoscendolo. Umanesimo. Riconoscimento della qualità. Anche all’ombra del nulla. Il “nulla” non deve annullare la differenza. Diceva Platone che Diogene il Cinico plateale, non riuscendo a elevare se stesso, annichiliva la superiorità altrui. Pessimo scopo. Tragica è la morte ma bello è vivere stimando ciò che vale. Diversamente, moriamo nella vita e nella morte.
(*) La laguna taceva. Storia d’amore tra Luigi Rizzo e Giuseppina Marinaz di Graziella Lo Vano, prefazione di Giuseppina Paterniti, Armenio editore, 144 pagine, 12 euro
Aggiornato il 13 marzo 2024 alle ore 09:46