Anatomia di una caduta della giovane regista francese Justine Triet è un film lungo ma che si vede. Dopo due ore, tuttavia, si comincia a chiedersi quando finisce. E, alla fine, finisce. Qualcuno ha capito se la moglie ha ucciso il marito o si è suicidato? Non si capisce. Certo, la moglie e mamma viene scagionata dal pargolo. Che la moglie scrittrice tedesca abbia ucciso il marito spinto dalla finestra dello chalet tra le montagne sopra Grenoble, non è poi così importante. Perché il film e la sua trama, in occasione della morte del marito scrittore francese meno talentoso e di successo di lei, è sul rapporto – molto conflittuale – tra i due coniugi. Il marito era e si sentiva un fallito per avere abbandonato l’insegnamento a Londra e non essere mai riuscito a dare alle stampe il grande libro che avrebbe voluto scrivere dopo essersi volutamente isolato con la famiglia in alta montagna tra la neve e le splendide montagne, o era la moglie che lo tradiva con donne e uomini e che aveva attinto per i propri libri, quelli sì, di successo, le sue stesse idee che aveva condiviso, ad averlo spinto in una delle loro violente discussioni giù dalla vetrata in alto della casa? La regista ci sa fare e il film comincia con una musica assillante tenuta ad altissimo volume tra il silenzio delle montagne, non si sa se per distrarre e accompagnare il marito nei suoi lavori di ristrutturazione per fare della soffitta un bed and breakfast, o per impedire l’intervista della moglie al piano terra con una adorante giovane intervistatrice.
Per gelosia, per ripicca, per dare fastidio. Il cadavere ha uno sbrego sanguinante sulla fronte, da arma contundente o perché, piuttosto, nella caduta, il corpo ha sbattuto contro un angolo del tetto là fuori? Il figlio divenuto cieco dopo un tragico incidente, padre e madre auto rinchiusisi per necessità economiche nello chalet isolato, la situazione è claustrofobica, non solo sentimentalmente. C’è apparentemente in sordina la questione del successo professionale, che è la questione invero sempre presente e di fatto scatenante del conflitto. Nelle registrazioni che il marito faceva ai fini della propria produzione e ispirazione letteraria, poi inserite nel processo contro di lei, c’è il marito che chiede più tempo per sé, per riflettere e scrivere, accusando lei di fare molto meno a casa e di prendersi degli svaghi che evidentemente lui non tollera, c’è tutta la violenza di lei e anche di lui, fisica e verbale. Al povero bambino, catapultato e immerso in questi problemi acrimoniosi da adulti, salva il salvabile, salvando la madre, dicendole tuttavia di “avere paura” di lei al suo rientro in casa dopo il processo. “Paura” che, ribatte la madre, “ha anche lei”. È un film amaro in cui, per oltre due ore, si viene schiantati e messi di fronte a temi e questioni affatto edificanti. Il film non rallegra, non rasserena, non si va via contenti, bensì chiedendosi se tutto quel tempo non fosse stato meglio dedicarlo a qualcosa di più costruttivo, meno inflittivo. Anatomia di una caduta ha vinto la Palma d’oro al 76º Festival di Cannes e ha ricevuto l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale (firmata da Arthur Harari e Justine Triet) e il Golden Globe per il Miglior film straniero.
Aggiornato il 11 marzo 2024 alle ore 15:11