Anche i maestri sbagliano. Martin Scorsese, l’autore per eccellenza del cinema contemporaneo, al suo 26° film firma un’opera di esile intensità drammaturgica. Killers of the Flower Moon, diretto dal regista premio Oscar, che ne ha firmato anche la sceneggiatura insieme a Eric Roth, ispirandosi al best seller omonimo di David Grann, è un intreccio basato sul senso di colpa. Una storia ambientata all’inizio del XX secolo che racconta la scoperta del petrolio da parte degli Osage. Il popolo di nativi americani di lingua siouan diventa notevolmente ricco. L’improvviso benessere attira l’interesse dei bianchi che iniziano a manipolare, estorcere e sottrarre con l’inganno i beni degli Osage fino a ricorrere a un vero e proprio genocidio. Tratto da una storia realmente accaduta, il film è un western dalle striature noir che narra l’ondivaga storia d’amore tra Ernest Burkhart (uno sperduto Leonardo DiCaprio) e Mollie Kyle (una ieratica Lily Gladstone). Una relazione il cui sentimento d’affetto s’intreccia a un terribile tradimento.
L’uomo, un indolente reduce della Prima guerra mondiale senza più muscoli nello stomaco, torna a Fairfax, una città dell’Oklahoma, per vivere col fratello Byron (un evanescente Scott Shepherd) e lo zio William Hale (un luciferino Robert De Niro), un vicesceriffo di riserva soprannominato “Re”. Uno zio, ricco allevatore di bestiame, che si atteggia a benefattore e amico degli Osage, parla la loro lingua e concede loro dei doni, ma che, in realtà, figura quale mandante di uno sterminio di massa ideato per rubare tutti i diritti petroliferi e le ricchezze degli Osage. A Fairfax, dopo numerosi omicidi di nativi giungono alcuni agenti della neonata Fbi guidati dal detective Tom White (un sornione Jesse Plemons), i quali accertano rapidamente la verità sull’incomprensibile destino di morte che ha investito la famiglia di Mollie.
Il film, pur dividendo la critica, ha ottenuto dieci candidature all’Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior attrice protagonista Lily Gladstone, Miglior attore non protagonista Robert De Niro, Migliori costumi di Jacqueline West, Miglior scenografia di Jack Fisk e Adam Willis, Miglior colonna sonora originale di Robbie Robertson, Miglior canzone originale Wahzhazhe (A Song for My People) di Scott George, Miglior montaggio di Thelma Schoonmaker, Miglior fotografia di Rodrigo Prieto. Nonostante sia mosso da lodevoli intenzioni, Martin Scorsese gira un film prolisso (206 minuti), sovraccarico di sottotrame una più esile dell’altra. L’unico sussulto narrativo si registra nella fase finale del film. Quando il cineasta riesce a inserire le indagini sugli omicidi e il processo. Così emerge la poetica scorsesiana. Tuttavia, anche il racconto gangsterisco, da sempre un marchio di fabbrica dell’autore, dà esiti narrativamente inconsistenti. Persino il reclutamento dei sicari e le relative uccisioni più che insopportabili atti di odio razziale suonano come azioni tragicomiche compiute da miserabili. Ma se i fratelli Joel ed Ethan Coen di Fargo raccontano la banalità del male, Scorsese, maestro di racconti intrisi di violenza iperrealista, non s’interroga, non analizza, non riflette. Si limita, stancamente, a mettere in scena il dramma di un popolo senza voce.
Aggiornato il 01 marzo 2024 alle ore 19:52