Quando ero in Sicilia, con minima età, persisteva ancora la “serenata”, la devozione maschile alla donna mediante la serenata, appunto. Una dichiarazione d’amore, chitarra e mandolino. La chitarra sonora piena, il mandolino schizzante, pimpante, la voce, il canto poteva sgorgare dall’innamorato, da amici o, diciamo, affittato. In ogni caso era l’innamorato che cantava indirettamente o direttamente. Stornelli, canzoni, allusioni, la bellezza, gli occhi, i capelli. Magari, insomma, si andava oltre, oppure niente di tutto questo: soltanto un omaggio cavalleresco. La fanciulla o donna che ascoltava sapeva o non sapeva dell’accadimento, compromettente. I bambini si radunavano, le persone curiosavano dalle finestre, e non è che la omaggiata e i familiari si compiacevano sempre di tali estensioni affettive. Quando l’esibizione non veniva ostacolata, una vera recita sonora, era teatro sotto casa. Abitavo in una palazzina con un cortile interno e un divisorio dall’altra palazzina accostata, le serenate si manifestavano in questo divisorio, e avevano spettatori udenti gli inquilini delle due palazzine. Sembravano palchetti di sala d’opera.
Per donne che abitavano dall’altra parte del cortile interno vi era la strada all’esterno. Io abitavo di fronte all’altra palazzina, nel divisorio, e vedevo e ascoltavo in tale posto che spartiva i due edifici. Quindi ascoltavo e vedevo serenate dalla mia parte o quella che la fronteggiava. Uno spettacolo, recite frequentissime. Con mio piacere sfrenato. Ma la faccenda era complicata, spesso la serenata non era gradita e un getto d’acqua, noi dicevamo nu bagghiolu – ossia recipiente, acqua scagliata contro i cantanti e i suonatori – chiudeva la serata e la serenata. Addirittura il padre, i fratelli, gli amici dell’amata non amante scendevano a minacciare i concertisti, e non sempre la tenzone si chiudeva con le parole. Se vi era gradimento, concerti indimenticabili, voci popolane, tra l’arabo e il siculo, acute, melodiose, con una venatura grezza che le autenticava. E canzoni mai più ascoltate, dal pozzo della memoria sociale, sovente in dialetto, mamma mia! il dialetto, quando lo sentivo e lo sento, che dire?
È la doppia madre, non è la lingua nazionale, dopo la madre umana vi è il dialetto. Usciva l’anima, il dialetto è individuato radicalmente. Esiste in ogni Paese, regione, in ogni città, in ogni borgo. In Sicilia vi è, dicevo, l’influenza araba, canto un po’ stridulo, alquanto sopracuto, esagerato, diciamo: Bannia, fa il bando, grida, di testa, toni alti di tenore leggero, non sempre, e danze con il tamburello. Poi, viaggiando, i vertici della musica, Portogallo, Spagna, Russia ma anche Scozia, Irlanda, e Indonesia e Cina, India, e pure gli Stati Uniti, e il Messico, il Perù, e la poco nota da noi musica (e canto) arabo, la musica “Andalù”, spagnola-nordafricana, la solenne o festosa musica ebraica, ma dico a caso, da strabiliare persino limitandosi a un solo Paese. Una Regione, la Sardegna, la Puglia, così, e diversamente. Scrivo quanto scritto in quanto vi è una ragione, tutta mia. Parlerò a giorni di un mio libro edito mesi passati e di un libro di testi poetici che sarà pubblicato a tempo ravvicinato. E, ad aggiunta, canterò. Non vedo l’ora. È la mia più personale disposizione. La musica, e non comprendo, con quanto abbiamo, l’inesistenza di porre a studio la musica, il canto, oltre la storia dell’arte.
Se vi è modo per salvare una civiltà l’arte ha il trionfo, direi che una civiltà è la sua arte. Il cattolicesimo esisterebbe minimamente se non avesse l’arte che ispirò, e i greci, gli egiziani. Di mio un concerto ne ho esibito, a Palermo in un Convegno su Friedrich Nietzsche, retto da Alfredo Fallica e Tommaso Romano, ebbi ascoltatori Gianni Vattimo, Eugenio Scalfari, Claudio Magris, Sossio Giametta, e stranieri, con Emanuele Severino che al piano non sfigurava; in molti convegni di sociologia e di psichiatria sociale ho cantato; in crociere con un gruppo di israeliani ho cantato; in crociata sul Volga ho cantato con dei russi, ma soprattutto canto in me, in silenzio esterno, lirica e canzoni classiche o popolari. E così domani, ore 19, in via dei Latini, 12, Roma, parlerò dei miei libri e canterò, canzoni antiche, facendo la serenata al Tempo che fu. Per salvare il passato, mio e della nostra società, e soprattutto per il piacere di ascoltare quel che non ascolto. Un teatrino, Il Cantastorie, piccolo e di qualità. I testi delle poesie saranno letti dalla professoressa Elisa Sachespi, la chitarra la animerà il maestro-compositore Andrea Bochicchio. Chi sa, forse cantando tornerò giovane. E una giovane donna ascolterà. Si chiama Elena?
Aggiornato il 23 febbraio 2024 alle ore 14:52