In genere di un evento culturale o di un altro prodotto il successo o il fallimento è decretato dal pubblico, che in una logica di mercato sceglie un’offerta o un’altra sulla base delle proprie preferenze. Quando però c’è di mezzo una personalità che ha dichiarato la sua vicinanza alle posizioni politiche della destra questo non è accettabile che avvenga. Anzi, basta poco per trovare il pretesto per tentare l’operazione di demolizione della persona in causa. Quando poi si tratta della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi si scatena l’inferno e si aprono le gabbie dei leoni. Senza negare che forse qualche ingenuità dettata magari dalla giovane età, che però le consente margini di ulteriore miglioramento, l’avrà commessa. Fermo restando il sacrosanto diritto alla critica, che è il fondamento di ogni libertà, appare l’accanimento contro di lei nel caso della performance di Palermo, quantomeno discutibile. Chi era a teatro per la sua direzione testimonia di un alto gradimento da parte del pubblico, che è stato prodigo di applausi, ma soprattutto ha registrato per tutte e due le serate il tutto esaurito, con buona pace dei detrattori e per la felicità dell’economo della Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana di Palermo.
È un fatto non da poco che la cultura, che in Italia è stata foraggiata negli anni del centrosinistra che è rimasto al potere anche quando ha perso le elezioni, riesca a fare incassi e ad autosostenersi. Tutto questo nel caso di Beatrice Venezi però non vale. Infatti, la direttrice è stata attaccata a prescindere, senza nessuna pietà, “rea confessa” delle sue simpatie per Giorgia Meloni. Peraltro la direttrice non è stata sostenuta nemmeno dai suoi cosiddetti “amici” della destra di potere, i quali forse ne temono l’ascesa a un ruolo di prestigio all’interno del Teatro Massimo di Palermo e non si capisce perché, visto che la qual cosa demolirebbe la convinzione che ci sono colline inespugnabili da esponenti non di sinistra e certificherebbe l’adeguatezza della destra a reggere le sorti delle più importanti istituzioni culturali italiane. Ma se fosse stata di sinistra la Venezi sarebbe accaduta la stessa cosa? Probabilmente no! E comunque i soloni del “Politically correct” avrebbero urlato al sessismo dei critici e avrebbero sollevato le argomentazioni tipiche dell’armamentario del femminismo sinistrorso. Nessuno qui vuole discutere sul piano della competenza tecnica, è una cosa da addetti ai lavori complessa e quando è obiettiva molto raffinata.
Invece, si vuole ragionare del diritto, di chi è di destra o centrodestra che dir si voglia, a potere esprimere valori alternativi anche nelle istituzioni pubbliche, senza per questo essere azzannato ai polpacci da chi ritiene che queste debbano rimanere una “riserva naturale orientata” della sinistra. Difendere il proprio territorio di caccia è in fin dei conti solo un istinto primario che il “radical chic” coltiva dentro il proprio cuore. Inutile tentare di convincerlo che l’altro esiste a prescindere da lui ed esprime valori semplicemente diversi, anche non sempre in contrasto con i suoi, attaccherà comunque. Ma che ci volete fare, certe pulsioni primordiali emergono proprio nei momenti di confronto più duri.
Detto questo però chi sta dall’altro lato a destra, fin troppo spesso o fa finta di nulla nella becera presunzione che tanto “governiamo noi e gli altri rosicano” dimenticando che la giostra delle elezioni spesso ha fatto scendere dal cavallo a dondolo proprio i più convinti della loro forza, o cerca di rabbonire il “feroce Saladino rosso” magari riciclandone qualcuno nella convinzione errata di farselo “amico” o peggio si chiude in una torre eburnea come il Drogo del Deserto dei Tartari, aspettando in “buona” compagnia che arrivi il barbaro nemico. Se Giorgia Meloni non prende atto della necessità per lei e per l’Italia di un’autentica apertura delle istituzioni culturali nazionali alle diverse sensibilità che a destra ci sono sempre state, anche di quelle critiche nei suoi confronti, la sua esperienza sarà ricordata come una occasione persa per rinnovare profondamente il Paese. È chiaro che si tratta di un processo lento e continuo. Lasciar correre nel tentativo di trovare il fidato più adeguato è un grave errore strategico.
Non fare invece un investimento su personalità, magari problematiche ma aperte e libere, costituisce un danno non solo all’azione di Governo, perché come afferma Virgilio Malvezzi “negli affari politici, non vi è altra regola, che la fortuna” e questa è fortemente volubile e affidarsi a essa è altamente rischioso, ma all’intero mondo della cultura nazionale che invece potrebbe trovarne giovamento dall’innesto di nuove e diverse energie. Solo così si potrà valorizzare quel pezzo di cultura patria, che la “Terza Italia” e le “centodestre”, da sempre esprimono attraverso giornali indipendenti, piccole ma significative case editrici, accademie private, associazioni e compagnie e rompere quell’egemonia “antilibertaria” che continua a condizionare, ancora dopo un anno e mezzo di Governo, la vita culturale italiana.
Aggiornato il 02 febbraio 2024 alle ore 16:50