Wim Wenders ci ha regalato tanta poesia in 50 anni di cinema. Va detto subito, e senza “se” nè “ma”, prima di avventurarci nella nostra critica a Perfect days, il film in concorso al Festival di Cannes 2023, e che è distribuito in questi giorni nei cinema italiani, con un discreto favore di pubblico. Naturalmente, se Perfect days fosse un prodotto del 1985, 1986, 1987 non scriveremmo quanto ci accingiamo a fare. All’epoca del “rampantismo”, infatti, si poteva anche celebrare l’accontentarsi di una vita semplice, l’accettare il proprio destino, il cibarsi della levità del komorebi, il termine giapponese che descrive il luccichio di luci e ombre, creato dalle foglie al vento, e che “esiste solo una volta in quel momento”, senza negare che fossero elementi originali. Mentre dominavano crescita e ottimismo, il non aspettarsi troppo dai propri giorni, fare bene, molto bene, il proprio umile lavoro, in una prospettiva zen, in uno yoga permanente, dove tutto è armonioso e sereno, senza grandi strappi, ma con qualche sorriso e qualche lacrima, ci ricordavano cosa significasse davvero vivere. Sarebbe stata la celebrazione della normalità, dell’umiltà e del ritrovare il proprio sé, il rispetto per gli altri, valori smarriti negli eccessi, nell’alcol, nell’ostentazione della propria ricchezza e della propria forza, negli stupefacenti o nella mera mondanità.
Ma Perfect Days – la cui idea si evolve da quella di essere un documentario sulle modernissime e perfette toilet di design di Tokyo per divenire la narrazione poetica dei giorni normalissimi e ripetitivi del protagonista Hirayama (Kōji Yakusho, Premio al Miglior attore a Cannes) – è una pellicola (si può ancora dire “pellicola”?) del 2023, un film nato nel dopo-Covid, e nell’era post-pandemica e post-obbligo vaccinale. E questa datazione, e il premio ottenuto nel maggior consesso cinematografico continentale, risultano pertanto assai sospette. Wim Wenders, 78 anni – da notare che ha 15 anni meno di Clint Eastwood – ha avuto una vita e una carriera eccellente, dal suo mestiere ha ricevuto premi, riconoscimenti e soddisfazioni: è uno dei giganti del cinema tedesco e non deve dimostrare più niente a nessuno. Il problema qui non è il suo film, ma la strumentalizzazione che ne può essere fatta. Perfect days può infatti diventare un manifesto woke in men che non si dica, se già non lo è diventato. Hirayama viene da una famiglia borghese e abbastanza altolocata, come si evince dall’incontro con sua sorella, dalla sua cultura (acquista libri di William Faulkner e di Patricia Highsmith, e musicassette del pop e rock anni Sessanta e Settanta, che ascolta la mattina in auto), lavora per la “Tokyo toilette”, nella quale svolge un lavoro di pulizia dei gabinetti pubblici. La macchina con cui si muove – si evince – è della ditta. Lui preferisce la bicicletta, si sveglia, lavora la mattina, fa una pausa per il pranzo e, con una vecchia, classica Olympus, scatta fotografie di alberi e foglie, continua i turni di lavoro, torna a casa, si reca in una spa pubblica dove si fa la doccia e si immerge nell’acqua calda, cena abitualmente ad un bar sotto la metropolitana, torna a casa, legge i suoi libri e infine si addormenta, e sogna. Il sogno, come del resto è il cinema di Wenders, si interseca con i “giorni perfetti”.
In quelli di festa, invece, dopo una breve visita al tempio shintoista per pregare, Hirayami lava i suoi vestiti in una launderette a pagamento, fa sviluppare in negozio le sue foto, che poi conserva diligentemente in scatole numerate dagli anni, si reca in una libreria, compra libri economici. La sua casa è piccola e spoglia, lui la tiene pulita e ci passa il tempo strettamente necessario. È un uomo sempre sereno ed equilibrato. L’incontro con sua nipote adolescente, scappata per qualche giorno dalla sua casa borghese del centro, e venutolo a cercare, fa intuire qualcosa del suo passato, forse un conflitto, forse una differenza di vedute con la famiglia di provenienza. Questa breve esperienza con la nipote gli lascia qualche emozione e forse qualche rimpianto, facendolo rincontrare con la sorella, che rimarca la sua attuale occupazione, ma rispettosamente, senza aggiungere giudizi. Hirayama non ha più desideri o aspirazioni, si accontenta di quello che ha, è retto e disciplinato, si preoccupa degli altri, al punto da prestare tutti i soldi che ha in tasca, rimanendone privo; gode ogni giorno della luce del sole e del luccichio delle foglie, si stupisce nel guardare le evoluzioni fisiche e stravaganti di chi sta peggio di lui, un senzatetto che spesso nel film gli si para davanti; infine, gioca a tris a distanza con uno sconosciuto. Non si occupa di quel che accade nel mondo, non ha uno smartphone, non guarda la televisione, non segue lo sport, se non una volta, casualmente. Guardando il film, ci si domanda come reagirebbe un Hirayama a Roma qualora vedesse in circolazione tanti giovani africani che passano le loro giornate per la strada senza lavorare o senza produrre nulla, o se trovasse la sua piccola dimora, a Monteverde o alla Bufalotta, devastata da qualcuno che ha rovistato nella sua esistenza presente e passata, stuprandola, poiché la mediocre serratura della sua porta qui non sarebbe sufficiente a proteggerla dai ladri, con una polizia impotente che neanche inizierebbe a cercare i responsabili del furto.
Lo potremmo anche immaginare al Gianicolo, in lacrime davanti a uno dei Pini di Ottorino Respighi, mentre gli uomini del servizio giardini, con le seghe elettriche, estirpano rami, tronco e radici, sottraendogli per sempre il komorebi, quel luccichio che brilla per l’ultima volta, a causa delle scelte scellerate della giunta Gualtieri. Ecco, nel momento in cui, certamente, trovando le toilette ogni giorno in condizioni pietose, con le tavolette estirpate e i rotoli di carta che ingolfano le tazze (e non nelle condizioni eccellenti di Tokyo) non si vuole proprio dire che Hirayama, a Roma, diventerebbe verde come Hulk, irraggiando rabbia pura e distruggendo tutto, ma se non altro non ascolterebbe Perfect Day di Lou Reed, ma molto probabilmente, Tutti di Calcutta. È per questo che Hirayama ha un profilo inquietante: quello di chi non possiede (quasi) più nulla, che è felice, non si chiede niente, non protesta e non si danna per quel che mangia, per l’ingiustizia nel mondo, per la scelta tra la pace e il condizionatore mentre il suo paese invia armi a un folle, o per la corruzione dilagante del potere impersonale che governa le nostre vite, crea debito – da cui anche il Giappone, come l’Italia, è azzoppato da molti anni – e consuma le proprie tasse. Hirayama non è un uomo pericoloso per il sistema.
Non prova alcun risentimento per il modello di vita che conduce. Accetta la propria vita e la propria condizione di suddito e abitante di una megalopoli, al quale è stato sottratto tutto – il contatto con la natura, la costruzione del proprio vivere, l’affettività, la socialità, la piena mobilità, la prosperità – per accontentarsi di essere un tassello di una civiltà e di un sistema pubblico che commette nefandezze ovunque nel mondo grazie alla leva fiscale, desertifica la ricchezza, ma che obbliga a far trovare il bagno pubblico, avveniristico, lindo e pulito. E Hirayama risponde presente, fa quanto gli spetta e anche di più. Per di più, Hirayama non ha figli a cui lasciare il poco che possiede e che presto non possiederà più nessuno, non viaggia in aereo, non consuma Co2 a dismisura, utilizza una macchina (non sua) solo per lavorare, vive e si muove in bicicletta, sostanzialmente, in un recinto cittadino di circa una quindicina di minuti (come a Oxford), non ha una terrazza con affaccio sul verde, e non pensa affatto a dove passerà le vacanze, arrivandoci magari con un diesel inquinante. All’uomo che gli confida di avere un tumore e che sostiene di andarsene “senza sapere niente”, Hirayama non contrappone la coscienza saggia di un uomo religioso che crede nel Divino, o l’adulto che vede un mondo di tradizioni antiche andare in fumo, ma la sollecitazione a giocare con la sovrapposizione delle ombre, come farebbe un bambino di 7 anni. Hirayama vive un eterno presente, ha dimenticato il passato e non ha alcun futuro. È un uomo paziente e generoso, pacifico, arrendevole: proprio il profilo del cittadino modello che vorrebbe tanto il World Economic Forum. Hirayama è resiliente. E il pubblico italiano di Wenders, inconsapevole di avviarsi sulla stessa strada, applaude.
Aggiornato il 17 gennaio 2024 alle ore 17:50