“La famiglia Malocchio” al teatro Anfitrione

Attore cinematografico, televisivo e teatrale, adattatore di testi per l’Italia e l’estero, regista. Sergio Ammirata – palermitano – ha esordito negli anni Sessanta lavorando con registi come Eduardo De Filippo, Fernando Di Leo e Sergio Grieco. Nel 1965 fonda la compagnia teatrale romana “La Plautina”, che per più di 50 anni sarà protagonista della stagione teatrale estiva presso il seicentesco Anfiteatro della Quercia del Tasso al Gianicolo (oggi colpevolmente abbandonato al degrado dalle istituzioni pubbliche), e poi presso i giardini della Basilica di San Saba all’Aventino. Nel 1976 la Compagnia si trasforma in Cooperativa, e Ammirata dà vita, per l’occasione, al teatro “Anfitrione”: una prima sede alla Balduina (1976-1981), e poi, dall’1983, a San Saba, nei locali dell’ex-cinema “Rubino”.

Come compagnia stabile del teatro, “La Plautina” rappresenta, nel tempo, molti capolavori di Plauto, come Miles gloriosus, Anfitrione, Menecmi e altri. Ora, sino al 28 gennaio, al teatro “Anfitrione” mette in scena, per la regia di Sergio Ammirata, La famiglia Malocchio, una commedia in due atti liberamente tratta da alcune opere di Luigi Pirandello. Ammirata si è ispirato anzitutto a La patente, racconto pirandelliano che fa parte della mitica raccolta Novelle per un anno che, pubblicata in più tempi tra il 1922 e il 1937 – l’anno successivo alla morte dello scrittore – è ritenuta da molti critici uno dei più alti risultati della novellistica italiana, nel solco di Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti, Giovanni Verga (ma anche delle arabe Mille e una notte). Da La patente lo stesso Pirandello aveva tratto, nel 1917, una commedia in un atto.

Se mi vedi come uno jettatore, per quanto io faccia, non riuscirò a cambiare la tua opinione. E quindi sarò così, ma che almeno possa trarne un vantaggio. Questa la filosofia di base del testo pirandelliano e di questa originale rielaborazione di Ammirata, che si avvale di uno scenario semplice, ma eloquente (l’ufficio d’un giudice di provincia in un piccolo centro della Sicilia), e di elaborati costumi in perfetto stile liberty, anni Venti-Trenta. Il giudice D’Andrea, qui un bravissimo Francesco Madonna, seriamente convinto che la jella non esista, vuol rendere giustizia a Rosario Chiarchiaro (un Sergio Ammirata in piena forma), ovvero un pover’uomo ingiustamente messo al bando dalla società per una sciocca superstizione (e come non pensare, qui alle incredibili, grottesche accuse di “jettatura” mosse, anni fa, contro artisti come Mia Martini e Marco Masini). Ed è quindi disposto a condannare il figlio del sindaco e un assessore, contro i quali Chiarchiaro si è “auto-querelato” (figura giuridica a dir poco inusuale) per “diffamazione”, in seguito agli scongiuri che quelli hanno pubblicamente fatto al suo passaggio. D’Andrea, dopo aver inutilmente tentato di convincere l’uomo a ritirare la denuncia, vorrebbe aiutarlo a vincere la relativa causa penale, ma viene a sapere dallo stesso querelante che questi è andato a fornire prove e testimonianze certe della sua capacità jettatoria agli stessi avvocati dei querelati. Dunque, è lui che vuole essere condannato.

Eppure, Chiarchiaro ha diversi motivi per chiedere giustizia. A causa della cattiva fama costruita su di lui, la propria famiglia si è rinchiusa in casa, le sue belle figlie non trovano più nessuno che voglia sposarle, lui stesso ha perso il lavoro e fa la fame. Ma proprio per questo il presunto jettatore vuole che non ci siano più dubbi sulle sue doti di autore di malefici: chi li teme, dovrà pagare una piccola somma per evitarli. Affinché ciò non appaia come un’estorsione, egli pretende che il giudice gli dia, condannandolo, un attestato, una patente appunto, perché possa esercitare legalmente la sua “professione” (come se fosse un qualsiasi lavoro!) di jettatore.

Insomma, Franz Kafka in Sicilia o a Napoli verrebbe da dire (e non sono pochi i temi comuni a due autori per estrazione culturale tra loro così diversi, dal contrasto insanabile tra “persona” e “personaggio” a “l’umorismo” come sentimento del contrario; dal gusto del paradosso alla pietà per la condizione umana di dolore e di pena, e per la frantumazione dell’io). Nel suo testo, Sergio Ammirata fa entrare, tra i protagonisti, anche i membri della famiglia di Chiarchiaro (che nei due testi pirandelliani, novella e commedia, erano poco più che semplici comprimari). I quali, come i Sei personaggi in cerca d’autore, chiedono a gran voce di essere riconosciuti a pieno titolo come “attori” (in senso legale) della vicenda processuale e umana del loro congiunto.

Ammirata, nel solco appunto pirandelliano, ha dato alla rappresentazione un carattere anche di interattività col pubblico. Poi, commosso, in chiusura, ricorda la compagna di vita e di lavoro di tanti anni, la bravissima, Patrizia Parisi, scomparsa nel 2017. Con lui  reggono perfettamente la scena Vittorio Aparo, Francesca Biagi, Antonella Bruni, Luana Cannistraci, Francesca Di Meglio, Annachiara Mantovani, Enrico Pozzi, Gianfranco Teodoro.

Aggiornato il 16 gennaio 2024 alle ore 19:07